La goccia dorata di un grande avvenimento sportivo, direbbe un poeta mistico, rimane pura fino a quando non tocca terra. Nell'attimo in cui ciò avviene, come l'inizio del mondiale di calcio, diventa una goccia di fango.
I brasiliani devono pensarla così mentre spalancano le braccia come il Redentore di Rio a chi vorrebbe rubare il sogno di una coppa, la sesta, conquistata nelle case sontuose che si sono costruiti, anche se la vera arte pelotera nasce sulle spiagge, sulle famose pelada dove i bambini imparano ad accarezzare anche palle di stracci.
Vogliono il titolo già vinto quando dal 1958, campi verdi di Svezia, la perla nera Edson Arantes do Nascimiento detto Pelè, il più grande con Maradona, fece diventare capolavoro il ponte che il dottor Feola aveva costruito con piloni ben solidi anche in difesa, fra gli eredi delle giornate tristi come la finale del 1950 persa contro l'Uruguay al Maracanà di Rio, fra lacrime e suicidi, e questi campioni col piede di velluto che poi rivinsero nel 1962 in Cile, quando Amarildo dovette sostituire l'infortunato O Rey, e anche 8 anni dopo in Messico nei giorni meravigliosi di Italia-Germania e perfidi del calcio italiano per la staffetta Mazzola-Rivera. Da quel giorno altre lacrime, cominciando dalla Spagna dove una delle nazionali brasiliane più forti, cadde proprio contro la Maginot del vecio Bearzot, fino alla vendetta sui calci di rigore a Pasadena contro l'Italia di Sacchi e al quinto titolo conquistato in Corea con il mattatore Ronaldo.
I poeti dicono che il Brasile si ama o si lascia. Lo pensano gli oltre duecento giocatori nati sulla sabbia o su campi spelacchiati che si guadagnano da vivere nel mondo, in Italia ce ne sono più di 50, che affrontano il gelo dell'Est per costruirsi una vita diversa da quella che la patria gli nega. Le loro scuole sono famose, il calcio ballato, la samba dei brasiliani, ma ecco che al momento di stringersi tutti insieme per riprendersi un titolo mancato nel 2006 e nel 2010, scoprono che ci vuole qualcosa di più di una Seleçao capace di far vibrare la gente per dimenticare quel giorno del 1950.
Lo capisci dal tormento per queste giornate che portano alla prima partita di domani contro la Croazia a San Paolo dove si parla di tutto meno che di calcio. Scioperi, scontri per nascondere tante altre cose che non vanno. Il loro calcio è allegria. Ma anche tormento se poi non riescono a vincere e questo è forse il vero limite, hanno le spalle sempre pesanti, figurarsi per un mondiale giocato in casa.
Eravamo nel ritiro del Brasile in Spagna nel 1982 quando furono eliminati dall'Italia. Avevano tutto, non vinsero nulla e quelle lacrime di Zico collegato con le radio a Rio e San Paolo sono ancora nella nostra mente, molto più delle randellate della polizia spagnola quando dovevamo avvicinare il presidente Pertini per sentirgli dire che quello era il giorno più bello della sua vita, una cosa che fece sussultare il capo redattore di questo Giornale: «Si accontenta di poco».
Per la verità non era poco e lo capiremo se il Brasile dovesse arrivare alla finale del 13 luglio a Rio de Janeiro dimenticando tutto il resto, dai cani randagi, al cemento che soffoca anche ai confini della giungla amazzonica di Manaus dove comincia la corsa dell'Italia, alle disuguaglianze sociali che il mondiale dovrebbe mascherare, anche se proprio in questi giorni senti parlare di tutto meno che del calcio brasiliano, di questa culla che ha visto nascere fenomeni e anche grandi dissipatori, artisti e filosofi del campo, ma anche campioni fulminati sulla via della gloria dalla saudade.
La loro arte, quel meraviglioso dialogo che hanno con la palla, soprattutto adesso che
sembra più leggera per farli amare e non lasciarli mai perché nel vedere il loro calcio, importato da un paulista di origini scozzesi, siamo tentati di non guardare al resto, un po' come nelle atroci danze del carnevale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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