Roma - «Ci siamo. È arrivato il momento». Francesco Totti prende il microfono quando il pomeriggio romano si scioglie in serata e saluta il suo popolo innamorato e inconsolabile, celebrando la sua orazione funebre da calciatore con una lettera che legge da un foglietto stazzonato mentre fa avanti e indietro sul prato dell'Olimpico zitto zitto. «Ho paura, sono orgoglioso di avervi dato 28 anni di amore, ora ho bisogno io del vostro», supplica. E ne riceve talmente tanto da riempire non uno ma sei o sette stadi pieni zeppi di gente che non vuole andare a cena e forse nemmeno a dormire, visto che da queste parti gli occhi stasera sono per le lacrime e non per essere chiusi. Il Totti che saluta sembra uno che non si toglie solo la maglia giallorossa ma anche scarpini e parastinchi. «Da domani divento grande». Più di così? E magari non sarà così ma stasera importa poco.
La sera segue un pomeriggio iniziato con le due squadre schierate a centro del campo nell'indifferenza generale mentre un intero stadio già celebra la riserva stanca che trotterella coi calzettoni scesi e il fratino sulla pista di atletica per un anticipo della festa che verrà dopo. L'istantanea stralunata del più lungo e snervante modo di appendere le scarpe «a qualche tipo di chiodo» come cantava Francesco De Gregori, uno che su una giornata come questa ci avrebbe scritto un intero album.
Francesco Totti lascia in una domenica glassata della luce dorata che solo Roma sa, e la città eternamente disillusa celebra con lui la sua decadenza, che la rende così brechtianamente bisognosa di un eroe purchessia, e quindi viva Totti e il suo quarto di secolo di celebrità, che in fondo Giulio Cesare comandò Roma cinque volte meno e solo quattro papi sono stati sul soglio più a lungo dell'ex Pupone. E tutti saranno più poveri a Roma da oggi, e pure i sette colli saranno sei e tre quarti. È la sua giornata, la cronaca di un melodramma annunciato, entra in campo dopo pochi minuti dall'inizio del secondo tempo con la Roma che sente la qualificazione alla Champions sfuggirgli di mano, la pratica Genoa ancora tutta da sbrigare anche a causa del ragazzino del 2001 Pellegri Pietro, che di Totti potrebbe essere figlio e segna dopo 3 minuti gioendo con ebbra infantile gioia per il gol più giovane che si ricordi, mentre il Napoli presto si mette a dilagare a Marassi. E sembra un dispetto del nemico Luciano Spalletti - fischiatissimo all'annuncio del suo nome - che per tutto l'anno si è rifiutato di fargli da badante e ora diventa perfino troppo generoso. Per qualcuno il tecnico medita di precostituirsi l'alibi in caso di fallimento dell'ultimo match in giallorosso di entrambi. «Avete voluto Totti? Lo avete avuto e abbiamo pareggiato».
Ma alla fine Perotti segna quando la carrozza sta per diventare zucca, la Roma acciuffa il secondo posto, quello che doveva essere l'ultimo placido valzer trasformato in allucinato sabba finisce in gloria e può partire la festa. Che si articola in: grande maglia giallorossa con numero 10 dispiegata al centro del campo, circondata da decine di giovani delle scuole calcio giallorosse. I giocatori della Roma, compreso il povero Emerson Palmieri con le sue nuove stampelle che deve ingoiare il dolore, tutti con maglia numero dieci. Perfino Spalletti, mentre gli altoparlanti squillano il cinematografico sciòn-sciòn di «Giù la testa», sceneggia una furtiva lacrima.
La pista di atletica che Francesco percorre piano piano, i più lenti 400 metri della storia, diventa il verde viale del tramonto di quello che per abissale distacco è il più grande calciatore che Roma abbia mai prodotto, allevato, coccolato, insultato, invischiato. Ciao Francé.
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