I Barendson. Quasi un'icona. Del nipote, Guido, charmant enogastronomo e giornalista di guerra e dei piaceri della vita, si occupano le cronache. Dello zio, Maurizio, è doveroso riaprire il diario, sfogliando pagine ormai dimenticate. Maurizietto, secondo nomignolo di compagnia, era un napoletano di origini olandesi, così come il nipote è un milanese che si sente scozzese. Il casato ha origini davvero antiche, i genitori e parenti vari di Maurizio Barendson erano orafi di religione ebraica i cui avi erano stati costretti sul finire del Settecento a fuggire dai Paesi Bassi verso la Francia, nel sito di Arras, appena oltre il confine. Fatta la premessa dovrei venire a Maurizio, uomo colto e sensibile, di quella napoletanità gentile, anche un po' ingenua e troppo indulgente. Stando alle enciclopedie viene inserito nel settore dei volti tivvù. Barendson non era soltanto un volto, quello dello sport nei vecchi telegiornali, tra i Pastore, i Telmon e i Citterich, ma era una testa, era l'intelligenza di una scuola, anche letteraria e filosofica, nutrita da Raffaele La Capria e Antonio Ghirelli, Achille Millo e Giuseppe Patroni Griffi, era il rinascimento partenopeo dopo la guerra acida e mortifera e Barendson tradì l'Università per l'avventura romana, iscrivendosi al corso registi del centro sperimentale di cinematografia.
Ma era anche il tempo in cui prendeva corpo la voce della libertà e della Liberazione, Radio Bari e Radio Napoli, le emittenti delle truppe alleate. E qui Maurizietto incominciò a studiare e a scoprire il nuovo mondo, la comunicazione diretta, il fascino della parola che poi fu il suo marchio di fabbrica, come lo fu per tutti i figli di quella generazione, non certo cresciuta tra babà e panna montata. Si segnala, alla vigilia di Italia-Austria, l'1 di dicembre del Quarantasei, una intervista di Barendson a Vittorio Pozzo, allenatore della nazionale azzurra, il quale vantava titoli mondiali e olimpici ma, come Maurizio, faceva, in contemporanea, il mestiere del giornalista, godendo di esclusive personalissime, privatissime. Il Tempo e Il Giornale d'Italia erano i fogli sui quali prese a vergare note di cronaca e di costume, amava il cinema, lo spettacolo, ma il football lo appassionava, portandosi appresso i ricordi di infanzia e di adolescenza quando al Vomero non c'era discussione: Veltro su tutti. Questo era il soprannome di Attila Sallustro, puntero paraguagio che fu il vero re di Napoli, ante Maradona natum. Si racconta, e lo raccontò Barendson, che Sallustro, il cui salario toccava le tremila lire al mese, prima che scoppiasse la guerra, fosse così illustre che un giorno travolse un passante, guidando la sua Balilla 521 donatagli dal calcio Napoli. Il malcapitato non si scompose, non urlò allo sciagurato conducente ma quasi in riverenza disse: «Scusate tanto, è colpa mia, voi potete fare tutto quello che volete».
Maurizio Barendson non era drogato dal tifo calcistico, amava il pallone, lo frequentava, come altre discipline sportive, ma ne restava distante, così come non gli garbavano affatto gli atteggiamenti e le parole del comandante, don Achille Lauro. Questi erano anni lontanissimi. Venne la televisione, dopo la radio. E Barendson, insieme con Paolo Valenti, intuì che proprio le immagini avrebbero potuto corredare le voci radiofoniche. Nacque dunque 90° minuto, idea geniale, il dopo partita con i resoconti e i film, inframmezzati dai commenti degli inviati e corrispondenti. Era figlia, quella trasmissione, di Sprint, nato a metà dei favolosi anni Sessanta come un contenitore elegante, cucito da registi eccellenti e condotto da illustri attori, quelli di grandissima audience, si potrebbe dire oggi, da Gassman a Tognazzi a Walter Chiari.
Barendson aveva comunque capito la differenza tra il giornalismo scritto, quello della carta stampata, e quello televisivo, dove l'immagine, il fotogramma erano già un articolo, una didascalia, un commento senza parole. La parola, come già detto, colta e anche leggera, mai arrogante e presuntuosa, fu la sua compagna di viaggio. La sua sensibilità lo portava a chiedere al collega «come sono andato nel servizio?», come avrebbe fatto, e non farebbe certo oggi, un esordiente al microfono e alla telecamera.
Non cadde mai nella tentazione dell'enfasi, poteva scappargli al massimo un «accidenti», secondo usi e buone abitudini dell'epoca. Rispettoso dei ruoli e delle competenze, occupò posti dirigenziali in Rai senza, però, lasciare eredi, se non rari, di uguale censo e istintiva umanità. Un difficile intervento al cuore complicò improvvisamente la sua vita.
Aveva soltanto cinquantaquattro anni. Ci lasciò una sera di gennaio del Settantotto, il giorno prima di Spagna-Italia. Lo ricorda, a Saxa Rubra, viale Maurizio Barendson. Sta tra viale Silvio Gigli e piazza Sandro Ciotti. La nostra storia.(9. Continua)
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