Zlatan Ibrahimovic ha avuto una forza ciclopica. Ha avuto la forza di fermare il tempo e di tornare a Milano e nel Milan, nove anni dopo quel caldo giorno d'agosto, come se tutto questo tempo non fosse mai passato. Stessa, trionfale accoglienza: a riceverlo in pista il Cfo Zvomir Boban e qualche volto noto, due ali di folla l'hanno scortato da Linate fino alla clinica di porta Romana dove ha svolto il rito delle visite mediche vestito con jeans e felpa, tiratissimo nel fisico, il sorriso ha sciolto la tensione nel vedere che era impossibile parcheggiare in strada. Stessa emozione, da lui stesso declinata nel suo italiano recuperato in fretta: «Sono molto contento per questo mio ritorno. È una grande emozione, ho sempre detto che questa è casa mia e finalmente sono qui. Sono stato da altre parti ma ora sono tornato, questo è importante. Ora aspetto i tifosi a San Siro, spero di farli saltare ancora come prima». Che non avesse voglia di fare lo spaccone, l'ha messo per iscritto prima di volare da Stoccolma a Milano con il post su Instagram nel quale ha inquadrato i suoi piedi commentando così: «Non sono arrogante, ho fiducia in me stesso». Che è poi il manifesto per i tanti che pensano non sia in grado di dare una mano a questo vecchio Milan conciato malissimo.
Non ha perso un solo minuto, Ibra in chiacchiere e comparsate, né pacche sulle spalle o rievocazioni nostalgiche. Si è infilato nell'auto, ha puntato verso la clinica e dopo si è diretto al centro ambrosiano per ricevere l'idoneità fisica per poi completare il primo tour milanese a casa Milan dove c'erano altri tifosi, arrivati in processione, a salutare il loro messia. Si è cambiato d'abito perché la foto ufficiale andava onorata con completo scuro e camicia bianca e ha firmato il contratto che non è mai stato in discussione per una questione di soldi, solo per la sua durata, 18 mesi invece che 6. Ibra ha scelto Milano, il calcio italiano e il Milan, perché è convinto di poter andare oltre certi limiti e perché è consapevole di poter aiutare il Milan, questo Milan che non è più quello di Ronaldinho e Pirlo, a risollevare la testa e a recuperare lo spirito antico andato perduto. Farà il motivatore, dentro e fuori lo stadio, oltre che il capo carismatico per un gruppo di esordienti. E forse per questo recondito motivo - «e perché piace ai miei figli» - ha scelto d'indossare la maglia numero 21, la stessa avuta sulle spalle nel 2002 durante il mondiale di Giappone e Corea, con la sua Svezia, accompagnata per mano a quell'appuntamento. Ha firmato il contratto spedito subito in Lega e si è rimesso in auto per raggiungere Milanello, anche qui atteso da un drappello di tifosi. Pioli e lo staff pensavano di dovergli fare il riassunto delle puntate precedenti, raccontandogli fatti e misfatti dell'ultima stagione. Ibra ha abbracciato uno dei pochi amici ritrovati, Bonera, e si è diretto in palestra per sottoporsi ai test e a una seduta impegnativa. Gli è servita per dimostrare che lui, Zlatan, sta bene come ha già detto nei giorni scorsi a società e allenatore.
E che è pronto, magari a presentarsi persino in panchina lunedì 6 per la presentazione dinanzi al pubblico che l'ha inseguito, invocato ed è pronto a saltellare sui gradoni dello stadio. Proprio come 9 anni prima, quando la sera di Milan-Lecce, in borghese, riscaldò i cuori della Milano rossonera e di Allegri e Galliani, preparando la conquista dello scudetto numero 18.
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