Tutto grazie a Véronique. Una donna. Colpo di scena: la carriera e una fetta di vita di Gianluigi Buffon legate a una donna? Massì, andate a controllare parole e pensieri di quella primavera, anno Duemilauno. Véronique Zidane, moglie di Zinedine, aveva le paturnie di Torino, sognava il mare e così spinse il marito a chiudere la valigia e abbandonare la Juventus. Madrid non ha il mare ma vale una messa e di più. La Juventus prese cento e trentacinque miliardi di lire e li rimise subito in circuito: prese dal Parma il difensore Thuram e il portiere Buffon, di anni ventitré, pagandolo 75 miliardi più la cessione di Bachini valutato miliardi 28, in contemporanea si liberò di Van der Saar al Crystal Palace per 23 miliardi.
Grazie a Véronique incominciò la nuova, grande avventura di Gigi Buffon, una leggenda costruita e vissuta in diciotto metri quadri, lo spazio della porta di football, la sua casa, il suo domicilio, il suo regno. Il compleanno fatale, quarant'anni, cade di domenica, giorno ideale per chi gioca a pallone. L'anniversario è celebrato dai media come la figurina di Pizzaballa, c'è stata la corsa a cercare lo scoop, a scovare negli archivi l'inedito, ci è arrivata Repubblica, il foglio che maggiormente e volgarmente attaccò Buffon per le storie di scommesse e altro ancora ma la memoria è come il mantice della fisarmonica, si apre e si chiude seguendo i desideri del musicista. Buffon ha parato di tutto, in campo e fuori. Ha affrontato e superato avversari di ogni tipo, ha conosciuto crisi affettive e professionali, ha urlato, ha vinto, ha alzato trofei, ha pianto, direi troppo, ha raggiunto una maturazione che non è ancora maturità.
Lo si capisce nelle sue interviste, quando alterna le parola a colpi di tosse accennati, un sistema per riflettere sul dire e sul detto, dandosi un tono serioso, quasi ufficiale.
Ha indossato l'abito del padre dopo aver vestito quelli del figlio ribelle, ha lasciato alle spalle le goliardate giovanili, sembra avere trovato la stabilità necessaria per prendere la grande decisione, quella del ritiro dal teatro. Ma, anche in questo caso, riaffiora la sua anima eterna di pupo, non di pupone, il sogno capriccioso di vincere ancora, di non mollare la presa sul pallone, di custodire la porta, di trascinare l'immagine come un'icona. Sbaglierebbe se volesse inseguire se stesso, ormai inavvicinabile da chiunque. Non ci sono cloni in circolazione, Buffon è stato, è, come Zoff, come altri portieri campioni in un gioco che è di squadra, di schemi, di azioni ma riesce da sempre e per sempre ad esaltarsi per questo ruolo solitario ed esclusivo che rende eroe chi per un'ora e mezza recita da osservatore.
Anche quel vezzeggiativo carezzevole, Gigi, lo ha tenuto sbarazzino mentre gli anni filavano via e questi ultimi baciati da sei scudetti e altre cose. Tra queste l'eliminazione dal prossimo mondiale, un binario morto sul quale Buffon è finito con il suo treno dei desideri che, come recita la canzone di Conte, all'incontrario va, ripensando all'occasione mancata, alla promessa non più realizzabile, A Mosca, a Mosca. Niente da fare ma c'è altro nella vita e nella carriera di un campione.
Qualcuno lo vorrebbe allenatore, dirigente, presidente. Si fa in fretta a costruire il futuro quando si gode di un passato così strepitoso. Ma non è come mettere una palla in calcio d'angolo o parare sulla linea bianca un colpo di testa, all'ultimo fiato di una partita. No, Buffon sa benissimo che il futuro non è più nelle sue grandi mani, in quei piedi un po' pinnati, premesse e promesse della sua carriera, intuita dai due Ermes e da Auro, nomi antichi e fiabeschi dei suoi primi allenatori, Polli, Fulgoni, Menconi.
Il futuro è già martedì in coppa Italia a Bergamo contro l'Atalanta, poi verrà il tempo del campionato e della Champions, stazione di arrivo desiderata
da sempre, raggiunta da mai. Verrà l'estate, la pausa per riflettere e decidere. Intanto domani si fa festa. Come scriveva Vitaliano Brancati in Paolo il caldo un uomo può avere due volte vent'anni, senz'averne quaranta.
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