N ovantasei anni di Agnelli. Trentacinque scudetti. È la storia della Juventus, è la storia di una dinastia. Una famiglia a capo di una squadra di football, qualcosa per la domenica, come l'aveva definita Gianni Agnelli, per spiegare l'affetto e il significato di questa tradizione mai interrotta, da un secolo all'altro. Da Edoardo, che nel luglio del Ventitré, assunse la guida del club, ad Andrea che oggi celebra un altro titolo, questo ancora di più monumentale, l'ottavo consecutivo, ribadendo, nella filosofia, quelle che furono le parole del nonno, il giorno dell'insediamento:
«Vi sono grato per aver accolto come un onore la mia presidenza, ma spero di non deludervi se vi confesso che non ho alcuna intenzione di considerarla soltanto onorifica. Dobbiamo impegnarci a far bene, ma ricordandoci che una cosa fatta bene può essere sempre fatta meglio». La Juventus dei capitalisti nacque per merito di un operaio, Antonio Bruna, che doveva dividere i turni in Fiat con gli allenamenti e le partite della Juventus, in quanto terzino sinistro della stessa. La fatica in fabbrica si trascinava in campo e fu un dirigente del club, Sergio Zambelli, a intuire la svolta. Si presentò dal senatore Giovanni Agnelli e gli chiese di mettere per iscritto il permesso per il Bruna, così accadde e lo stesso operaio implorò il padrone di affidare al figlio Edoardo la guida della società. Fu l'inizio di una avventura che non ha epilogo, la Juventus entrò in famiglia, si narrò addirittura che Virginia, moglie del senatore, girasse per le strade di Torino, tenendo al guinzaglio un barboncino nero e un samoiedo (un cane nordico da traino) ovviamente bianco. Da Edoardo ai figli, Gianni prima e Umberto dopo, quindi Andrea, nella continuazione della proprietà che è cosa differente dal possesso, dunque un riferimento garantito e costante, pur nel cambio di presidenti e quadri dirigenziali, non tutti, questi, all'altezza dell'impegno, dei risultati e della stessa tradizione. Ad Andrea Agnelli è toccato il compito più arduo, quello di raccogliere l'eredità, dopo il buio del duemila e sei, e di farla crescere, di consolidare il nome, di portare la Juventus oltre il territorio nazionale, di distinguerla per strategie e investimenti, in un mondo calcio sempre più feroce, nelle leggi di mercato e nei comportamenti degli attori. La Juventus ha cambiato maglie e loghi, ha traslocato di sede sociale, si è esibita in quattro stadi diversi a Torino ma è rimasta identica a se stessa, la più amata dagli italiani e, in contemporanea, la più odiata dal resto dell'Italia. Donna Allegra Caracciolo Agnelli, madre di Andrea, prosegue la storia, con la presenza costante all'Allianz, una specie di dovere di famiglia, un testamento non scritto, rispettato con una rigorosa discrezione pubblica ma con una privata e fortissima passione per la squadra. «Il potere logora chi non ce l'ha», disse Charles Maurice de Tayllerand, poi ripreso da Giulio Andreotti, non alludendo di certo al football.
Ma così accade nel nostro calcio, là dove i successi juventini provocano allergie anche se questo ottavo titolo è arrivato senza le manifestazioni di piazza per aiuti arbitrali e affini e, in fondo, anche previsto per l'arrivo di Cristiano Ronaldo. Novantasei anni dopo, nulla è cambiato. Non c'è Agnelli senza Juventus. Non c'è Juventus senza Agnelli.
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