L a finestra di San Pietro aperta sul calcio, su questo calcio, restituisce un soffio di aria pura, forse l'illusione che il cielo sia ancora terso, l'acqua sgorgante da una sorgente, il sole carezzante come nei giorni in cui illumina ogni bellezza naturale. Il discorso di Papa Francesco , recapitato al mondo del pallone, ci induce a pensare che, non sempre ma talvolta, non è sbagliato lasciarsi prendere per mano dall'illusione che non tutto sia perduto.
Il Papa ha partecipato all'evento Il calcio che amiamo , portato in Vaticano dalla Gazzetta dello sport insieme ad un gruppo di calciatori ed ex campioni, ed ha restituito parola, voce ferma ai valori che dovrebbero essere un recinto per il pallone e non, invece, un secchio pieno di buchi. «Il calcio è il gioco più bello del mondo, giocare rende felici, la felicità è dare un pallone ad un bambino», ha detto Francesco che è tifoso ed appassionato e, probabilmente, illustrando questi principi comuni ad un piacere antico ha rivisto tanti film delle sue strade argentine, il lato comune dei ragazzini di tutto il mondo: uguali, senza distinzione di razza o religione, quando corrono dietro ad una palla, magari fatta con gli stracci.
Il Papa ha lanciato tanti ami. «Il pallone è un mezzo per condividere amicizie in una società che esaspera il soggettivismo», «Il calcio è un gioco e tale deve rimanere. Nel calcio giovanile esistono fenomeni che macchiano la sua bellezza: per esempio genitori che si trasformano in tifosi- ultras», «I genitori aiutino i figli a capire che la panchina non è un'umiliazione, gli allenatori non opprimano con forme di ricatto che limitano la fantasia, i campioni non dimentichino da dove sono partiti», «E i dirigenti non lascino finire la bellezza del calcio nei negozi finanziari».
Dunque inclusione, meno calcio business, più felicità e meno oppressione: questo sarebbe il calcio che tutti
vorremmo. Ma non è più così. Eppure basterebbe che il mondo del pallone rispettasse un dieci per cento di quello che ha chiesto il Papa, perché Francesco possa dire di avere vinto almeno una partita. Non proprio un campionato.
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