Così come in ogni guerra si contano episodi di strenua resistenza, in ogni dopoguerra bisogna fare i conti con la retorica. L'armamentario è vasto, e va dalla narrazione di eroismi ingigantiti alla semplificazione manichea di buoni e cattivi. Per questo è complicato, ora che il terreno di battaglia della SuperLega è ancora fumante e i feriti ancora in condizioni critiche, fare un bilancio oggettivo delle 48 ore che hanno shakerato il calcio (davvero il Psg è frugale e la Uefa morale?). Però, e in questo fa impressione quanto i corsi e ricorsi storici si intreccino, una cosa è incontestabile: il calcio come lo conosciamo deve la sua sopravvivenza ai tifosi inglesi. Gli stessi - o i loro figli e nipoti - che quarant'anni fa distrussero la dimensione familiare dello sport a colpi di spranga, cinghia e anfibi.
Senza la sollevazione di massa - e non solo popolare in senso di ceto sociale - delle rispettive tifoserie, le Big Six non si sarebbero mai ritirate dal progetto. D'accordo, le leggi punitive promesse dal premier Boris Johnson, sempre pronto a captare gli umori dell'opinione pubblica, hanno avuto un peso. E forse anche i presunti finanziamenti promessi dalla Uefa per boicottare il progetto. Ma la sensazione è che la minaccia decisiva sia stata un'altra, ben riassunta dal comunicato dei tifosi del Liverpool, decisi a non cantare mai più l'inno You'll never walk alone. Come a dire: fate questa SuperLega e vi ritroverete a «camminare da soli». Il che non solo è malinconico, ma per i cuoriprosaici di gestori di fondi americani, magnati russi e sceicchi, è anche poco redditizio.
Dicevamo della retorica. Quella della working class che si ribella al business come in un film di Ken Loach e del popolo che si riprende il gioco dalle mani dei miliardari lascia il tempo che trova: il business non sparisce dal calcio e soprattutto in fondo anche ai tifosi il campione strapagato non dispiace, così come la pay-tv. Ma non è qui il punto. La vera rivolta sta piuttosto nella rivendicazione globale di una dimensione comunitaria e sentimentale del football. Sta nella «gente del pallone» che scava una trincea e pone dei paletti invalicabili per difendere un rito sociale e sportivo. Che siano stati gli inglesi i primi a scavare quella trincea è una sorpresa solo per chi è fermo all'iconografia (vera, ma parziale) dell'operaio disoccupato delle Midlands che picchia la moglie a casa e poi va a sbronzarsi allo stadio.
Dall'inferno hooligan degli anni Ottanta, dai quasi 200 morti delle stragi di Bradford, Heysel e Hillsborough e dalla squalifica internazionale per l'intero movimento del calcio inglese, tanto è cambiato. È grazie alla riforma di Peter Taylor che si sono diffuse la concezione dei posti numerati che oggi ci sembra così scontata, la soluzione degli steward che responsabilizza i club, la legislazione dura contro i violenti. Il che non ha risolto tutti i problemi (non succede mai così, se non nei comizi politici), ma ha consentito alla Premier League di diventare una specie di paradiso del tifoso, con il crollo dei disordini e il boom di presenze: 14.5 milioni di spettatori nel 2018/19 (contro i 13.3 in Germania, i 10.3 in Spagna e i 9.4 in Italia, per non contare la Championship, la seconda divisione, con il suo record di 11 milioni di spettatori). Un paradiso costoso, dato che il biglietto è mediamente il più caro d'Europa, ma comunque il bengodi per chi ancora cerca nel calcio quel senso di appartenenza che altrove si va estinguendo rapido a colpi di social e globalizzazione.
Perché la differenza sta essenzialmente qui. La filosofia (agghiacciante) della SuperLeague è un tifo universale e superficiale, estetico e non viscerale: il tifo dei turisti che vanno al Camp Nou a vedere Messi o a Torino a vedere CR7 come si va a vedere la Gioconda, o dei ragazzini asiatici per cui Milan-Inter vale uno schema di Fortnite; l'opposto di quello conflittuale e da lacrime dei fan del Leeds o del Sunderland, immortalato dalle serie tv Take us home e Sunderland 'til I die. Il segreto è nel sentirsi orgogliosamente «altro», e in questo gli inglesi sono maestri. Sentimento delicato, che porta a decisioni controverse come la Brexit, ma che parallelamente eleva l'identità e la condivisione di tradizione, storia e comunità sportiva a valore sacro. Quasi come la libertà.
Basta entrare in un qualsiasi stadio inglese per capirlo: la percentuale mostruosa di tifosi con maglie (originali!) e colori sociali, i cori anche mentre si perde 4-0, il rito del «programma» cartaceo da comprare. «Fans, not customers», tifosi e non clienti, come si leggeva in uno dei tanti striscioni esposti dai tifosi di Chelsea e Liverpool - ma anche Arsenal, Manchester City o United - scesi in piazza per protestare contro i loro stessi club. «We want our cold night in Stoke», si leggeva anche: vogliamo le partite sotto la pioggia fredda, lo sfottò contro i vicini di casa, le trasferte con gli amici e lo spirito di una volta. Che suonerà pure come una patetica nostalgia canaglia, ma è qualcosa di più.
È la lezione di chi non vuole rinunciare all'autenticità, anche se il costo è uno stadio più scomodo - chiedere ai fan del West Ham orfani inconsolabili di Upton Park e trasferiti nell'Olympic stadium di Londra moderno e senz'anima - o una squadra con meno stelle.Loro hanno inventato il calcio, loro lo hanno difeso. E senza cinghiate, riscattando un passato vergognoso. Dio salvi la Regina, ma - a costo di essere retorici- non si dimentichi di salvare anche i tifosi così.
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