di Cristiano Gatti
Si chiude la prima settimana di Giro. Abbiamo visto abbastanza per farci un'idea precisa. L'idea è questa: ridotto così, il Processo alla tappa va chiuso. Almeno per rispetto, almeno in omaggio a quello che rappresentò - su idea e testi di Sergio Zavoli - nella piccola storia d'Italia.
Quest'anno la Rai si è imposta - o le hanno imposto - una meritoria spendig revew, con taglio sulla moltititudine di inviati e pure sui loro compensi. Dopo esserci sorbiti i primi "Processi", si può dire che resti ancora un ramo secco da recidere. L'arena del dopocorsa. Lo scandalo più clamoroso è che si ostinino a chiamare "Processo" una trasmissione dove non si accusa mai nessuno, non c'è mai un'arringa delle difese, soprattutto non viene mai emesso un giudizio.
In una scenografia tristissima da camera ardente, con megatribune desolatamente semivuote, alcuni figuranti aspettano di vedere le interviste sul traguardo e poi parlano di questioni rigorosamente datate. La storia, la leggenda, la corsa dei giorni precedenti (almeno, lo chiamassero "Processo alla tappa del giorno prima"). La premiata conduttrice, Alessandra De Stefano, regola il traffico delle banalità e della noia con piglio da zia petulenate, senza mai sollevare una questione vera, scatenare una polemica, stimolare una critica. Molto spazio invece al gradito ospite: a Margherita di Savoia un certo Nicola, attore, ruba la scena e tutti a chiedersi chi diavolo sia. A che titolo. Cosa ci faccia lì. Quanto ai temi d'attualità, domandone scomodo al pierre Sky: cosa è successo a Serra San Bruno? È la tappa di tre giorni prima, mica siamo qui a dormire.
C'è poco da aggiungere, non ci sono attenuanti: così sono inguardabili. Meglio arrestare l'agonia e amputare. Almeno resterà un grande ricordo.
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