La corsa veloce non è più di un colore solo In quattro giorni, 4 schiaffi al dominio nero

E nei 3000 siepi donne c'è la sorpresa americana: doppietta Coburn-Frerichs

Sergio Arcobelli

«White power». Senza cadere nella facile retorica che fin troppo si usa in questi casi, il Mondiale di atletica ha riportato in auge un fenomeno che non si vedeva da tempo: atleti bianchi che battono gli atleti di colore sul loro terreno prediletto, la corsa.

Innanzitutto è necessaria una precisazione: è fuori discussione che la disciplina sia dominata storicamente dagli atleti di colore il record del mondo dei 100 metri, per citarne uno, è appannaggio dei neri dal 1968 e che la differenza fisiologica tra bianchi e neri è lampante. Eppure, nonostante «la natura abbia dato ai neri un vantaggio sui bianchi» (Carl Lewis dixit), in alcune gare questo divario si è ulteriormente assottigliato.

Mai come in questa edizione così tanti europei e asiatici, oltre alle discipline più tecniche, hanno impensierito gli atleti di colore: dai 100 metri al mezzofondo, non sono mancate le sorprese. Fino alla quaterna d'oro, tra martedì e ieri, di quattro atleti bianchi. Primo è stato il francese Pierre Bosse, che ha sbaragliato la concorrenza negli 800, una specialità dominata negli ultimi tempi dai keniani; poi è toccato al 21enne norvegese Karsten Warholm, che ha riconsegnato dopo 18 anni all'Europa l'oro dei 400 ostacoli; giovedì è stato il turno di Ramil Guliyev, azero di nascita ma turco di adozione, portarsi a casa l'oro dei 200; infine ieri sera il successo - più atteso anche se non facile - dell'olandese Schippers nei 200 donne che ha bissato la vittoria iridata di due anni prima. Senza dimenticare (nel mezzofondo puro) la sorpresa dei 3000 siepi con le statunitensi bianche Coburn e Frerichs che si sono lasciate dietro le fortissime keniane. Alla faccia delle differenze fisiche.

Certo, va detto che il crono di Guliyev, quel 2009 che è valso il primo posto, è lontano anni luce dal record del mondo di Usain Bolt (1919) che probabilmente avrebbe stravinto l'oro dei 200 se si fosse presentato al via, ma questa è un'altra storia e non deve togliere nulla a quanto compiuto dall'azero.

Come non deve togliere nulla alla magnifica carriera di Bolt il terzo posto nei 100 dietro al reietto Gatlin e a uno dei volti nuovi dell'atletica, l'americano Christian Coleman, oggi avversari in pista del Lampo giamaicano nella 4x100, l'ultima gara della carriera del fenomeno di Sherwood Content. In attesa di scoprire chi riceverà il testimone da Bolt, anche se il presidente della Iaaf Sebastian Coe ha già spiegato che «non siamo alla ricerca di un nuovo Usain, è un campione straordinario e nessuno potrà mai essere come lui», l'atletica cerca un suo erede, senza (per ora) averne trovato uno già pronto a raccoglierne l'eredità. Ma è nella normalità dello sport perdere, da un momento all'altro, il proprio beniamino, colui che trascina le folle, fino a quando non ne nasce uno altrettanto in gamba: prima di Lewis c'è stato Owens, ma lo stesso discorso vale per Federer e Connors, per Valentino e Agostini, per Messi e Maradona.

E se l'atletica italiana non ha ancora trovato l'erede di Mennea, se mai ce ne sarà uno, questo Mondiale ha mostrato le qualità e la tigna di Filippo Tortu, che ricorda la Freccia del Sud sebbene il 19enne

lombardo nella corsa sia più simile a un altro olimpionico azzurro, Livio Berruti. E a proposito del grande Pietro, va ricordato come il record europeo di 1972 resti inavvicinabile e imbattuto. Atleti bianchi o neri che siano.

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