nostro inviato a Londra
È bronzo, è vecchio, è felice, è lui la salvezza dell'Italatletica che fin qui aveva preso solo sberle in faccia e pugni a casa, pugni per altre ragioni, pugni per doping, marcia, tristezze varie. È bronzo, dopo il trionfo agli europei di un mese fa, era Helsinki, era importante, non così importante. Fabrizione Donato è bronzo nel salto triplo, bronzo che nell'atletica degli americani e dei russi e dei cubani e della Cina vale tanto e di più e questo senza svilire le medaglie delle altre discipline, ma suvvia, ci sarà un motivo se la chiamano la regina dei giochi. È bronzo, come in quell'ultima, lontana, volta a Città del Messico, anno 1968, Fabrizione neppure era nato, neppure era nei pensieri di mamma e papà mentre Giuseppe Gentile andava ad acchiappare il gradino basso del podio olimpico dopo aver fatto due record mondiali, in qualifica e in gara, due record ovviamente battuti perché fu un festival dei salti, dall'oro di mago Saneyev, dall'argento di fantasia Prudencio.
E allora godiamoci questo piccolo grande re che con il suo 17 e 48 si inchina solo all'americano Taylor (17.81) che si sapeva, campione del mondo in carica, in forma, giovane, poteva solo sbagliare e non ha sbagliato. Applaudiamo il piccolo grande re che ci prova, comunque, esaltato, incita e si incita con gli applausi ritmati dell'Olympic Stadium, e al sesto non gli riesce e va bene così, va bene lo stesso, è bronzo dietro all'altro a stelle e strisce, Claye (17.62).
Aria fresca, aria sana, ci voleva, l'Italia delle sberle in faccia è sulle spalle del ragazzone come la bandiera tricolore in cui si avvolge Fabrizio un attimo dopo il trionfo. È storia, storia d'Italia. Dirà: «Un medaglia ottenuta con il lavoro, con dedizione, con amore. Perché non posso definirla sofferenza, io mi diverto». È anche una risposta indiretta alla «nausea» di Schwazer: «Il triplo è un gioco e tale deve rimanere. Se riesce bene e se non va, bene lo stesso. Ora voglio continuare e coltivare altri sogni».
Però in questa notte di Donato è severamente vietato dimenticare il suo compagno di nazionale e di stanza, il giovane discepolo Daniele Greco che assieme a Fabrizio ha trasformato per una sera quest'Italia che nell'atletica non c'è, arranca, quasi non esiste, in un'armata dignitosa in pianta stabile sui due gradini del podio virtuale della prima fase che avrebbe poi spalancato ai tre devastanti balzi finali. Già, discepolo. Perché il pugliese di Nardò ha qualcosina come tredici anni di meno rispetto a laziale, qualcosina che nella vita vuol dire molto e nel salto triplo vuol dire più di tutto perché le articolazioni si disintegrano, perché le caviglie tremano, perché le ginocchia si sfaldano. Prova ne sia l'emozionante e però triste immagine del caraibico delle Bahamas, Sands, in barella con il ginocchio a pezzi. Prova ne sia lo stesso Greco, sfortunato, che s'acciacca al primo salto della finale e comunque ci prova e chiude quarto, dai.
«Se solo potessi», aveva scherzato l'altro giorno Roberto Pericoli, l'allenatore di Donato che segue anche Greco affiancando nell'opera Raimondo Orsini, scherzando aveva detto «se solo potessi farei un mix di entrambi, di Daniele e Fabrizio, mettendo assieme, nell'atleta ideale, l'efficienza di uno e l'esperienza dell'altro...».
In fondo è stato accontentato. Li ha visti uniti a lungo, hanno viaggiato assieme, subito bene Fabrizio 17,38, benino Daniele 16,90 che si farà perdonare con un 17 e 34 del sicuro passaggio ai tre salti finali.
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