Gattuso, un po' operaio e un po' Einstein «Ma non ho fatto niente»

Rino ha stravolto metodi, tempi e intensità d'allenamento, recuperando il dna rossonero

Gattuso, un po' operaio  e un po' Einstein «Ma non ho fatto niente»

Non tutto ciò che può essere contato, conta e non tutto ciò che conta, può essere contato. La frase, firmata Albert Einstein, era affissa all'ingresso dell'aula dell'università di Princeton ma potrebbe tranquillamente campeggiare in bella vista nello spogliatoio di Rino Gattuso, a Milanello in queste ore. Perché a contare i risultati, le perfomance, la finale raggiunta mercoledì notte a Roma sotto la neve, la striscia positiva (come non succedeva dal 2009), e in particolare le differenze con il Milan precedente, si possono raggiungere conclusioni che contano eccome. In 14 partite il Milan di Montella raggranellò 20 punti, quello di Ringhio in 12 è già a quota 24. E poi: nelle sfide che contano contro Lazio, Roma e Samp, tre rivali posizionate davanti in classifica, Montella portò a casa 0 punti, Gattuso 9. Infine: nelle 4 prove di coppa Italia, stagione gattusiana, contro Verona, Inter (più supplementari) e Lazio (andata e ritorno più supplementari), il discusso ministero della difesa rossonera ha subito zero gol. Possono bastare? Per tutti tranne che per il diretto interessato che è un monumento vivente all'umiltà non esibita ma spontanea. Forse ha un'idea stravagante del turn-over ma solo la primavera ci dirà se ha esaurito la benzina oppure no. Un altro giovane rampante, specie se esordiente sulla scena del campionato, si sarebbe sentito Napoleone senza avere né la mano destra nella camicia e nemmeno lo scolapasta in testa. Lui, Gattuso, è rimasto quasi impassibile dinanzi al cambio di marcia, di stile, e soprattutto di rendimento.

«Mi state facendo passare per un guru e io non lo sono, ne ho di pane duro da mangiare, qui non abbiamo fatto ancora niente» le sue parole giunte nel corso della notte in cui ha trovato tempo e modo per condividere persino con Montella il merito della finale di coppa Italia e spiegato che non è ancora il tempo di «salire sul carro». Gattuso, e il suo staff, hanno tentato un'operazione molto rischiosa: potevano andare a sbattere come lasciavano immaginare un paio di fuori pista (Benevento e Verona) e invece hanno dato vita a uno spettacolare inseguimento. Come? Semplice, a parole: stravolgendo metodi, tempi e intensità degli allenamenti, facendo il pieno di energie e di preparazione fisica diventata la qualità più vistosa, recuperando il talento di acquisti che sembravano buchi nell'acqua (Biglia, Calhanoglu, Bonucci, Kessiè). Poi Rino, di suo, ha aggiunto un registro tattico appreso alla scuola di Ancelotti e coltivato il senso di appartenenza, mancato in modo clamoroso negli ultimi anni seguiti alla stagione dei grandi trionfi. Il clima operoso e virtuoso che non si vide con Seedorf, che fu smarrito con Inzaghi e svanì definitivamente con Mihajlovic, si è ricreato negli ultimi due mesi quando il Milan cinese guidato da un altro debuttante, beniamino della curva e del popolo dei tifosi, accolto dalla critica tra mille diffidenze, ha recuperato il dna più autentico, il milanismo insomma, riconosciuto ieri sera, ad esempio, nella glaciale freddezza di Gigio Donnarumma, all'atto dei rigori finali.

Così anche l'osceno sfondone di Kalinic davanti alla porta è passato quasi sotto silenzio, anche se l'interessato ha postato su Instagram una foto del gruppo in festa con le mani giunte, come per chiedere scusa.

Neppure la solita incursione di Mino Raiola («se fosse per me Gigio dovrebbe lasciare il Milan») che ha dovuto rinunciare alla exit strategy studiata in estate, ha scalfito questo clima a conferma di una recuperata compattezza. Che adesso deve passare attraverso le prove più insidiose, derby e Arsenal in sequenza.

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