Francesco De Gregori non tifa Milan, si sa. Ma quando scrisse «La leva calcistica del '68» non aveva mai visto Mbaye Niang andare sul dischetto, un bulletto-cerbiatto alle prese con le prime responsabilità. «Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore/non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore»? Parla per te, Francesco, e pensa ai milanisti che ancora si chiedono se in tutta la rosa non ci sia uno straccio di giocatore più freddo di lui. Perché Niang non è che i rigori li sbagli per bravura altrui: li sbaglia perché li tira proprio male.
La sua autorevolezza si ferma a quando afferra la palla per tirare. Col Crotone l'aveva addirittura strappata a Lapadula e l'aveva sparata addosso a Cordaz. Ieri sera nessuno ha osato contestargliela. È andato dagli undici metri con le sue gambe lunghe lunghe, che rallentavano la rincorsa senza ben sapere cosa fare. Una finta, l'estremo tentativo di far muovere Szczesny, come a dire: «Ti prego, fai un passo, fanne un altro, fai una giravolta ma non lasciarmi da solo con questo pallone, che l'ho voluto ma mi fa paura». Niente da fare. Portiere fermo e palla a mezza altezza, mezza distanza, mezza forza, mezza voglia. Un mezzo rigore che per essere parato ha avuto bisogno di una semplice mezza parata.
Due in due partite, una sentenza. Perché il quarto errore su sette penalty battuti in carriera, nella sfida per il secondo posto, pesa e non è un particolare. Un giocatore si giudica da questo, non solo da altruismo e fantasia.
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