Forse non si dimette l'allenatore più bravo della storia milanista. Di sicuro se ne va l'unico in tutta la galassia rossonera a cui i tifosi oggi volevano davvero bene.
Chi ha detto addio a Rivera, Van Basten e Baresi, nel cuore non porta nessun giocatore di oggi. Giochi qui e sei bravo? Tifo e stima. Sei un campione e te ne vai? Arrivederci. Sono professionisti. E a forza di ripeterlo, cinicamente ci siamo quasi abituati. Ma con Ringhio è diverso: lui è l'unico caso di bandiera che sventola dalla panchina. Per questo mancherà. Per qualche sortilegio che nessun amministratore delegato o marketing manager potrà mai spiegare, c'è un calabrese cazzuto e tignoso che nonostante i «risultati deludenti» è entrato sotto pelle a tutti i tifosi, ancor più da allenatore che da giocatore. Lo conoscono da anni, sono cresciuti insieme. Parla e soffre come loro, scuote i Bakayoko come farebbero loro, a fine partita non ha voce come loro. A tutti sembra di sentire le rispettive mogli rimproverarli perché «come si fa a ridursi così per il calcio?». Semplice, perché Gattuso adora il Diavolo come loro. Di più, è la sua anima. Il problema è che le anime a volte è giusto lasciarle partire, perché la sintonia si è dissolta come l'eco del triplice fischio.
È attorno a questo groppo viscerale di amore, riconoscenza, immedesimazione e critica tecnica che si avviluppano le sensazioni dei milanisti oggi. Perché parlare di Rino Gattuso è come sedersi sul lettino dello psicanalista. La parte razionale può contestarne i difetti. Poi però affiorano i ricordi eroici, il pressing al 120' in finale di Champions con la Juve, i traumi condivisi come Istanbul; la simpatia per le frasi sincere e mai banali in conferenza stampa, per le lezioni di vita nello spogliatoio, per i valori e l'umiltà, energia nucleare che spinge a dare tutto. Parlare di Gattuso oggi per i milanisti è fare un bilancio fra le aspettative inconsce di tifosi viziati dai successi recenti e il dna antico di una passione calcistica per niente snob, in grado di portare 80mila spettatori con la Cavese e di abbracciare con affetto perfino Abate, a cui in nome dell'impegno sono stati perdonati anche i piedi cubici.
Ecco, a Gattuso non c'è niente da perdonare. Sarebbe stato bello aprire un ciclo, vederlo costruire qualcosa. Ma ha perso la Coppa Italia, i derby, non è andato in Champions e in due anni di spettacolo se ne è visto pochino. Tutto vero, poi però la matematica dice che solo Juve e Napoli hanno fatto più punti di lui e la ragione suggerisce che tra ombre cinesi, fondi americani e bomber argentini in crisi d'identità, forse gli schemi sul campo non erano esattamente il problema principale del Milan di quest'anno. Specie se poi in campo i presunti campioni diventano giocatorini impauriti e non si prendono responsabilità.
Gattuso si è caricato le sue e pure quelle degli altri, da leader. E come i leader paga. Ma è stato il centro di gravità di un mondo a brandelli che cercava a tentoni una strada fra operazione nostalgia e gestione moderna, è stato la stella del Sud a cui tendere mentre spiravano bufere di fair play e bonacce di Bonucci. Non è un caso se con lui San Siro è tornato a riempirsi nonostante si giocasse in contropiede pure con il Frosinone, se è arrivato il miglior piazzamento da sei anni e se tanti oggi si sentono come se il loro migliore amico fosse partito per un posto lontano. Gattuso è stato un riferimento nel vuoto quando poteva andare tutto peggio.
Per questo l'emozione è così naturale e smisurata rispetto al bilancio sportivo: perché per fortuna anche nel calcio l'uomo (non l'ominicchio che chiede l'adeguamento di contratto a 18 anni, non il quaquaraquà che accampa solo scuse) a volte viene prima di tutto. La misura di quanto e che uomo sia Gennaro Gattuso non la si scopre oggi, ma - direbbe lui - «chi nasce quadrato non muore tondo»: rinunciare a 5 milioni di euro per il bene della sua società e però pretendere che ai suoi collaboratori sia pagato ogni centesimo è solo la naturale, momentanea conclusione di una storia d'amore sana e bella. Che unisce nella stima anche gli avversari.
Da domani i milanisti avranno tempo di sperare in un nuovo mago della tattica che col calcio champagne mieta trofei in uno stadio hi-tech senza la gloria di San Siro, così da rilanciare il brand dall'Asia a Timbuctu.
Oggi lasciateli commuovere e salutare il loro Ringhio. Che in panchina non avrà vinto niente, ma ha conquistato qualcosa che non concorre ai bilanci ma è più unico e più prezioso: il rispetto e la gratitudine del suo popolo e di tutti i tifosi di cuore.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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