Molfetta nella storia Calci e pugni d'oro dell'Usain de noantri

nostro inviato a Londra
Come per i suv a metà prezzo e i televisori intelligenti, dobbiamo l'arrivo del taekwondo alla Corea. Per cui dobbiamo alla Corea anche questa medaglia d'oro e la dobbiamo a Carlo Molfetta che è stato meraviglioso a recuperare dopo essersi trovato in svantaggio di cinque punti e la dobbiamo, massì, anche ai giudici che hanno deciso che Carlo aveva combattuto meglio, che era stato più aggressivo. Perché questo succede nel taekwondo, se si arriva alla fine a pari punti (9 il nostro e 9 il coriaceo e leale Obame, atleta del Gabon) si combatte ancora per il golden point e se anche questo non serve a dirimere la vertenza, la decisione finale passa ai giudici. E così sia, per una volta non ci hanno sgambettato.
Medaglia come per Sarmiento la sera prima, medaglia che però brilla di più quella di questo brindisino 28enne, il Bolt de noantri come si è involontariamente auto proclamato in mondovisione, imitando il gesto dell'arciere di Usain. Categoria over ottanta chili la sua, cioè Molfetta è grosso grosso e fa paura paura. Tanto più bardato di tutto punto come richiede il taekwondo, cioè caschetto e pettorina d'ordinanza e però calzini o similari.
Sport duro il taekwondo. E Carlo urlerà: «Per un punto si perde, per uno si vince. Oggi si vince. Non c'era lotta. Siamo un'ottima scuola e possiamo fare ancora di più». E Molfetta è grande anche nelle dediche: «Questa medaglia è per Leonardo Basile, peso massimo nazionale. Poteva esserci lui qui, per scelte tecniche hanno portato me. E un po' la dedico alla mia ragazza Serena». E poi tutto lo spessore di questo ragazzo pugliese emerge nel «viva i carabinieri».
Sport duro e, si diceva, sport arrivato per via coreana, sport che guarda caso è comparso ai Giochi a livello dimostrativo nel 1988, Olimpiadi di Seul, ma che coincidenza, ed è diventato ufficiale a partire da Sydney 2000. Sport e arte marziale, va detto, che ha la seguente ragione sociale: rendere chi lo pratica cosciente dei propri mezzi, offrendogli quella serenità d'animo e quell'autocontrollo che sono alla base di una vita soddisfacente. Gli esperti sostengono che si tratti più di disciplina mentale che di attività fisica. Sarà...
In effetti non convince. Perché a Pechino come qui a Londra - cioè le uniche due volte che l'Italia del tifo si è emozionata per il «Tae», nel senso di colpire con i piedi, per il «Kwon» nel senso di pugno, e per il «Do» nel senso di arte - chiunque si sia trovato da inesperto innanzi a simile arte non ha potuto far altro che correggerne la suddetta ragione sociale: il fine ultimo non è la serenità d'animo, ma prendersi a calci, tanti calci, alcuni nel sedere. La maggior parte degli assalti, alla fine, finisce così, con le gambe levate che sibilano nell'aria e puntano al caschetto che vale tre punti e spesso s'attorcigliano all'avversario che cerca di scansarle e vanno a finire sul lato B.
Nel mondo si prendono a calci in 50 milioni più o meno in tutti i Paesi. Da noi sono in 20mila e in continua crescita e sicuramente non gradiranno questa semplificazione della nobile arte. Calci o meno che siano, la verità è che grazie a Molfetta di oro si tratta, che grazie a lui e a Sarmiento di due medaglie si tratta e soprattutto di due trofei che si aggiungono a quelli dei pugili che menano, dei cecchini e le cecchine che sparano, degli sciabolatori e delle fiorettiste e dei fiorettisti che tirano.

Mentre le discipline cosiddette nobili latitano in modo imbarazzante. Vedasi il nuoto della Pellegrini, vedasi l'atletica che se non ci fosse stato il gigante buono Fabrizio Donato nel triplo sai che calcione al morale avremmo preso...

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