di Tony Damascelli
O rmai era fatta. Così sembrava. Il gol di Boninsegna aveva steso i tedeschi. Così sembrava. L'arbitro messicano Yamasaki aveva controllato il suo orologio pronto a fischiare la fine. La Germania soccombeva. Così sembrava. Rimessa laterale di Held, il pallone finisce sul corpo e sui piedi di Jurgen Grabi Grabovski, gli arriva addosso Picchio De Sisti che viene respinto dagli spigoli del tedesco, parte il cross, in mezzo all'area, dimenticato dalla Patria azzurra, da Giacinto Facchetti per primo, spunta quel biondino del Milan, Karl Heinz Schnellinger, allarga a forbice le gambe, il destro di contro balzo è perfetto, velenosissimo, micidiale, decisivo, palla in rete, Albertosi è una statua di cera. Grazie al biondino che, prima e dopo quel gol, non risulta mai nel tabellino dei marcatori tedeschi, grazie a quel colpo disperato, in apnea, di destro, viene fuori lo spettacolo dei supplementari, il 4 a 3 che diventerà un film, il 4 a 3 che sta scolpito, come memoria, in una lapide nello stadio Azteca.
Da Schnellinger a Rivera
Tre a tre. Ormai sembrava, ormai era destino che si dovesse andare al sorteggio. Una monetina per sapere chi avrebbe raggiunto la finale. Così sembrava. E' il minuto 6 del secondo tempo supplementare, Boninsegna rimette il pallone in gioco dopo il pari di Muller, il tocco è pigro, lo riceve De Sisti che ha i calzettoni arrotolati sulle caviglie, come Domenghini, per lo sforzo di una sfida incredibile. Picchio appoggia corto a Rivera, i tedeschi accennano un pressing modesto, l'artista del Milan restituisce a De Sisti e da questi a Facchetti, il nostro capitano si volta e lancia Boninsegna sull'out. Bonimba mette giù la testa e parte trascinandosi quel poveretto di Schulz ubriaco di fatica, l'azione è potente, feroce, il cross arretrato trova spiazzata la terza linea tedesca, Franz Beckenbauer ha il braccio destro fasciato e legato al corpo, dopo un contrasto energico di gioco. Gianni Rivera appare come la madonna di Lourdes, il suo piatto destro prende in controtempo Sepp Maier che tenta la disperata forbice per fermare la traiettoria, inutile e goffo il tentativo, il pallone lo fa fesso, il gol consegna alla storia la nostra vittoria, l'accesso alla finale di una squadra cotta da quelle due ore in altitudine.
I 41 secondi dell'Olanda di Cruijff
Quarantuno secondi. I primi, dal fischio d'inizio dell'arbitro inglese Taylor. Senza che la Germania abbia il tempo di intervenire. L'arancia meccanica olandese fa girare lentamente il pallone con quattordici tocchi, poi Johann Cruijff cambia il film, la velocità, l'idea, il numero 14 va via in dribbling, due finte e Berti Vogts caracolla a destra, a sinistra, Cruijff è già in area, Vogts e Uli Hoeness lo arpionano, Taylor fischia il rigore, il genio si fa da parte, sul dischetto si presenta Neeskens, 1 a 0 dopo sessanta secondi di non gioco. La cicala olandese lascerà il titolo mondiale alla Germania che pareggia su rigore con Breitner e vince con Muller. Ma quei quarantuno secondi sono una grande lezione di football.
L'urlo di Tardelli
L'urlo di Madrid, lo schizzo che diventa firma, monumento, Marco Tardelli si incacchia nelle spalle, stringe i pugni, scuote la testa e i capelli fradici di sudore, apre le fauci, lascia la perfidia e il cinismo per dare sfogo libero alla felicità mondiale, il suo gol alla Germania fa parte della cronaca ma la pazza corsa diventa un'opera d'arte, l'inno alla gioia non più del tedesco Schiller ma del toscano di Careggine che piace alle donne di ogni età e manda distesa la Germania. Marco è un ragazzo di ventisei anni ma torna a essere un bambino che ha scoperto che Babbo Natale esiste. Nella tribuna d'onore del Santiago Bernabeu si alzano in piedi Pertini, il Presidente, Agnelli, l'Avvocato, esaltati, fieri e sovrani a fianco del re Juan Carlos, fratelli d'Italia nella notte di Spagna, Madrid è l'isola del tesoro. La corsa di Marco non è mai finita.
Il rigore di Grosso
L'ultima carta nella mano da poker di Marcello Lippi. Le prime quattro sono state vincenti, Pirlo, Materazzi, De Rossi, Del Piero, manca il jolly. Eccolo, avanza con quella faccia un po' così, gregario di sempre, imprevedibilmente eroe nella semifinale contro la Germania. E' l'ora di Fabio Grosso.
Lippi ha gli occhi umidi di sudore e di fatica, Fabio prende il pallone che ha tradito Trezeguet, ha il profilo acuto, lo sguardo incerto, appoggia il pallone sul dischetto, qui resta curvo per due, tre lunghissimi secondi, si rialza, recupera la posizione, passa la lingua sul labbro a pulire l'ultima tensione, osserva Barthez, il portiere, e ancora il cielo sopra Berlino. Il sinistro è perfetto, il guardiano francese si è coricato dalla parte sbagliata, il buio della notte diventa alba e luce maestosa, Fabio Grosso non è un calciatore qualunque, l'Italia è campione del mondo.
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