È il Giro di Ciccio e Ciccia. Lui, Rigoberto Uran Uran, nome da mottarello e cognome da gruppo rock. Lei, Alessandra De Stefano, cronista Rai, nota all'ambiente come la Zia per il piglio giornalistico che distingue il suo "Processo alla tappa". Da quando il colombiano ha messo la maglia rosa nella cronodegustazione Barbaresco-Barolo, lei ha svoltato brutalmente sul salotto spinto, cominciando a chiamarlo come il rosticciere sottocasa, "Ciccio ti aspetto sul palco", "Ciccio come va", "Ciccio complimenti". Lui, sbarcato con le sue disgrazie infantili in un Paese che credeva evoluto, subitamente si è adeguato: "Ciao Ciccia", "Grazie Ciccia", "Vengo domani, Ciccia".
Ora, io dico: va bene che il Giro è anche un po' sagra e un po' dopolavoro, va bene che il Giro trasuda umanità e resta la massima manifestazione autenticamente "pop" del costume italiano, ma qui stiamo letteralmente sbracando. C'è un limite, diavolo. Deve esserci. Non s'è mai vista un'Ilaria D'Amico, o una Paola Ferrari, scendere così di livello. Non me le vedo che si collegano con Mazzarri o Guidolin con questi toni all'amatriciana, "Senti Ciccio, come mai oggi il 4-4-2?", "Ciccio, vediamo di fare chiarezza", "Ciccio mio, quand'è che ti fai vedere da queste parti?".
Purtroppo, tutto concorre a rendere questo Giro, già povero di suo, parecchio misero. Diciamo le cose come stanno: dopo due settimane, lo spettacolo più emozionante ai vertici della classifica, in senso non tanto bello, ce l'ha regalato la rotonda assassina di Cassino, con mezzo gruppo accatastato sull'asfalto e Cadel Evans che tira dritto per prendersi la maglia rosa. Ma siamo ai minimi sindacali. Si cerca pietosamente di dire che questo Giro è bellissimo perché la classifica resta molto "aperta", ma a me pare che un Giro alla portata di tutti denunci pesanti limiti sul piano degli interpreti. La Scala non è alla portata di tutti i cantanti: la Scala è per pochi. I grandi giri, uguale. Qui manca, terribilmente manca, l'impronta limpida dei purosangue. Anche Ciccio: alla prima controprova di salita, questa salita di Oropa che non è niente di che, va subito in difficoltà. Non è che lo mettano in croce: basta una scrollatina del nostro Pozzovivo, seguito dal redivivo Quintana, per vederlo annaspare.
Siamo ai livelli di una bella Tirreno-Adriatico, questa la verità. Voto complessivo, finora, non più di sei. Ma stiracchiato, come greco salvato all'ultima interrogazione. Niente di più. E' un Giro a dir poco interlocutorio, di transizione. Un Giretto. Certo non un Girone. Mi spiace dirlo, mi spiace tanto: ma il Giro d'Italia merita di meglio, molto meglio. Soprattutto, un cast più prestigioso e uno spirito più combattivo.
Qui l'unica nota veramente positiva, qualcosa che davvero può risollevare il morale della nazione, è lo svezzamento dei nostri giovani. Dopo Canola, a Oropa è la volta del suo compagno di squadra - la Cantera italiana della famiglia Reverberi - nonché conterraneo vicentino Battaglin: dotato di un finale al fulmicotone, al cospetto della Madonna Nera s'inventa una rimonta negli ultimi duecento metri che brucia negli ultimi duecento millimetri il sogno di Cataldo.
Bravi, i nostri ragazzi. Stanno arrivando. Bravo anche Aru, l'uomo da classifica, in rimonta nel finale. Loro, i babies azzurri, di più non possono fare. Sono i presunti big a doversi dare una mossa. Se sono big per davvero. C'è una grande fame di imprese, c'è una grande fame di campioni.
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