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Soldati, maestro nel pallone con lo spirito del cronista

Cuore juventino, passò dalla letteratura al Mundial gettandosi con umiltà nelle mischie delle «zone miste»

Soldati, maestro nel pallone con lo spirito del cronista

Mercoledì 23 aprile 1980, nella splendida luce di un tramonto su Tellaro, Mario Soldati mi disse: «Caro, è ora che lei se vada. Tra poco gioca la Juventus». Ero andato a trovarlo perché avevo deciso di scrivere la mia tesi su di lui, uno degli intellettuali più curiosi e versatili del Novecento italiano. Il contatto con Soldati era stato Enrico Paulucci, pittore straordinario, uno dei Sei di Torino. Amico della mia famiglia, mi consegnò un quadro che Soldati desiderava. Mi era stata concessa un'ora, rimasi quasi sei. Soldati era reduce dalla rottura del femore, però la sua verve affabulatoria era intatta. Nei mesi successivi mi telefonò più volte per aggiungere dettagli e suggerimenti. Sempre alle 6 del mattino. Un giorno gli chiesi: «Ma è lei che imita l'Avvocato o viceversa?». Si fece una gran risata: «Lui. E' più giovane».

Di Paulucci era amico non solo per faccende culturali ma perché entrambi erano tifosissimi della Juventus. Paulucci vi aveva addirittura giocato, come portiere.

Scrittore, sceneggiatore, regista, conduttore televisivo, giornalista, Soldati si è occupato di ogni argomento, con la stessa passione, sanguigna e popolare. Fu inviato del Corriere della Sera al Mundial spagnolo formando, con Giovanni Arpino nella pattuglia del Giornale e Gianni Brera di Repubblica, un tris di giornalisti-scrittori che non si è mai più visto al seguito del football. I tre ingaggiarono, per i lettori, una splendida disfida. Tra di loro invece duellavano in interminabili partite notturne a scopa, interrotte dalle urla di Soldati quando la cenere del toscano, sempre tra le labbra, gli finiva sui pantaloni, in una zona delicata, scottandolo.

A proposito, Soldati partì per la Spagna con un bidet portatile. Sanitario per lui indispensabile, non era certo di trovarlo. La Spagna, le cui prime elezioni libere si erano svolte solo cinque anni prima (1977), era per Soldati una terra sconosciuta. Nella raccolta dei suoi reportage sul Corriere, ora rintracciabili in ah! Il Mundial" (Sellerio), confessa che, dopo aver tifato per la Spagna socialista contro l'Italia fascista ai Mondiali 1934, non mise più piede nella penisola iberica. La Guerra civile cominciata da Franco gli impedì di raggiungere «una ragazza bionda e bellissima che mi aspettava a Saragozza». Nei decenni successivi, in crociera nel Mediterraneo, quando il piroscafo faceva scalo a Malaga, a Barcellona, a Ibiza, lo scrittore non scendeva mai a terra. «Dall'alto del ponte di comando urlavo vaghi improperi in direzione dei doganieri e dei gendarmi». Quindi, partendo infine per la Spagna, Soldati si porta il bidet. Non si sa mai.

Così Gianni Brera lo racconta: «Ai Mondiali '82, Mariòn è venuto quasi per caso. Abbiamo trascorso notti suonando come flauti traversi le enormi e fragranti sardine dell'Atlantico. Intraprendemmo scope memorabili, a mezzo delle quali, spenzolando il toscano dal suo labbro sottile, ironico, molto simile a quello di Adolph Menjou, Mariòn era capace di addormirsi: al risveglio, disinvoltissimo, pretendeva gli dicessimo le dispari secondo il Quarantotto».

Brera aggiunge, con la totale assenza di piaggeria che lo contraddistingueva: «Mariòn, del Mundial, non capì nulla come del resto tutti noi». Però vi si buttò con il tradizionale entusiasmo e la golosità che lo ha guidato attraverso tutti gli aspetti della vita. E soprattutto senza pedanteria, senza saccenteria, privo di qualsiasi supponenza. Lui, scrittore maiuscolo, si immerse nel giornalismo sportivo con ardore, con la passione per la vita che ha raccontato nei suoi romanzi. Il calcio tornerà, sempre, da America primo amore a Le due città, nei suoi romanzi, nelle sue novelle, nei suoi elzeviri. Il primo match a otto anni, nel 1914. Un derby a cui lo portarono i genitori. «Juventino fui anch'io da allora». Però da torinese migrante, amò anche il Toro.

Il calcio, per Soldati, è una metafora dell'esistenza. Si chiede: come è possibile soffrire tanto per una partita di calcio? «Nessun essere umano è sicuro del proprio destino, mai. Anche i più fortunati pregano che la fortuna continui ad assisterli e temono che la fortuna li abbandoni. Ora, quelli che si appassionano al football, quando vedono la squadra del cuore impegnata in un match dall'esito incerto, identificano la propria sorte con la sorte della squadra del cuore. Per loro, inconsapevolmente e irrazionalmente, il risultato si carica di simboli» (Juventus primo amore, Torino il secondo, La Stampa 1977). «Un'Ave Maria per la Juve» gli chiede un compagno. Diverrà un refrain a cui dedicherà anche un racconto.

Questa contaminazione, questa capacità di affrontare generi diversi senza fare classifiche è il grande lascito di Soldati. Nel 1982 a 76 anni, si fece largo nelle zone miste con l'umiltà di un principiante. Non si abbassava, come ho visto fare in anni recenti a sedicenti scrittori non degni di sciogliergli i calzari. Loro, con il birignao degli snob, sfioravano gli avvenimenti per marcare la distanza dagli altri. Soldati vi si buttava.

Quella sera del 1980, ascoltai la partita alla radio. La Juve venne eliminata dall'Arsenal nella semifinale di coppa delle Coppe (0-1).

Immaginai Soldati sofferente a Tellaro a chiedersi: perché? Due anni dopo, al Mundial, con bidet e penna (deliziosa) ebbe la risposta.

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