Cesare G. Romana
Nato per correre, daccordo. Ma non si creda che Born to run, che trentanni addietro rese planetario il mito nascente di Bruce Springsteen, non fosse che lesplosione dun vitalismo corrivo, men che mai latto di nascita di un inedito superomismo rock. Se, oltre ai giovanissimi, quel brano sedusse lAmerica più colta e pensosa, fu per il tratto dolente che ne infiltrava lapparente muscolarità.
Non era una buona annata, quel 1975, per gli States e per lamerican dream: Nixon aveva dovuto por fine alla guerra del Vietnam, incombeva la crisi energetica, le esequie del franchismo e linsorgere del sogno eurocomunista impensierivano, dalla periferia dellimpero, lAmministrazione imperiale. A ventisei anni di età Springsteen colse questo sgomento crescente, e cantò: «Di giorno ci sfoghiamo per le vie dun effimero sogno americano/di notte attraversiamo manieri di gloria in macchine da suicidio». E ancora, «questa città ti strappa le ossa dalla schiena/è una trappola mortale, un invito ad ucciderci/usciamone finché siamo giovani/perché vagabondi come noi sono nati per correre». Poi raccontò: «Allepoca passavo le notti sulle autostrade, al volante duna Chevy del 57 con carburatori doppi, a quattro cilindri e fiamme arancioni dipinte sul cofano. La crisi petrolifera annunciava che presto non avremmo più avuto né benzina né auto, la gente cominciava a capire di trovarsi in un Paese dove la vita e le risorse avevano dei limiti, e la paura cominciò ad aprirsi un varco». Sicché concluse: «Born to run fu la linea di demarcazione, lalbum in cui superai la mia concezione adolescenziale dellamore e della libertà». Born to run divenne così, dopo Blowin in the wind, il più grande inno rock di unAmerica smarrita, prototipo dun impegno civile cui Springsteen anche recentemente non si è sottratto. Ed è giusto ricordarne il trentennale con Born to run 30th anniversary edition, pingue cofanetto che include la rimasterizzazione del celebre album, un divudì realizzato «dietro le quinte», la registrazione dun concerto londinese di quellanno e un libretto di foto inedite. Ma ancor più interessante è Real world - sulle strade di Bruce Springsteen (Arcana), stregante volume in cui Ermanno Labianca e Giovanni Canitano raccolgono, da springsteeniani indefessi, fotografie, testimonianze illustri - Bono, Morricone, Ben E. King, John Hiatt, Ben Harper, Billy Bragg, Jakob Dylan -, confessioni del Boss raccolte durante i suoi tour, dal 1981 di The river al 2005 del magnifico Devil & dust. In una fantasmagoria dimmagini inconsuete e emblematiche: Bruce in scena, strade infinite, banlieu travolte dal degrado, quadretti conviviali, sgargianti murales tra sogno e realtà.
Un libro fotografico? Anche, ma Real world è ben altro. Non fosse per come ripropone i discorsi che Springsteen - di Born to run dirà: «Avrei voluto cantare come Roy Orbison, scrivere come Dylan e far musica come Phil Spector» - tenne alla Rocknroll Hall of Fame, svelando con amore e pertinenza i capisaldi della sua retrostoria dartista. Come quando dedicò a Bob Dylan, insuperato maestro, un palpitante ritratto: «La sua voce arrivava nel profondo, toccava quel briciolo di consapevolezza che un liceale del New Jersey poteva possedere. Era un rivoluzionario: come Elvis aveva liberato il corpo, lui liberava la mente. Ci dimostrava che la musica è unespressione naturale di fisicità, ma che ciò non esclude che essa sia anche una manifestazione dintelligenza. Aveva il talento, insomma, necessario a far sì che una canzone pop contenesse il mondo intero».
Che fu, in fondo, lutopia di universalità tentata con Born to run, e perseguita negli anni a venire: «I personaggi di quellalbum - scriverà il Boss - erano meno eccentrici e meno caratterizzati localmente di quelli dei dischi precedenti. Sarebbero potuti essere tutti e nessuno. Quando la vetrata sbatte in Thunder road non ci troviamo più necessariamente lungo la costa del New Jersey: potremmo essere dovunque».
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