Di Stefano, addio al grande tenore anima e cuore della lirica

Ferito gravemente nel 2004 in Kenia, non si è mai più ripreso. Era il cantante preferito dalla Callas. Una vita di grandi passioni: la musica e le donne. Cominciò a cantare per caso grazie a una partita di scopone

Di Stefano, addio al grande tenore  anima e cuore della lirica

Il grande cantante lirico Giuseppe Di Stefano si è spento ieri, vicino a Lecco. Il tenore avrebbe compiuto 87 anni il 24 luglio. Durante un'aggressione per rapina, avvenuta tre anni fa in Kenia, fu gravemente ferito. Le sue condizioni non si sono mai ristabilite del tutto. I funerali si terranno domani pomeriggio a Santa Maria Hoè, il paesino della Brianza dove il cantante viveva

Gli occhi. Due lapilli, neri, caldi, memoria della terra sua, la Sicilia di Motta Sant’Anastasia. La voce poi. Unica, immensa, tenera anche e di passione. Con un leggero cenno della mano aveva respinto il microfono che un ingenuo cameriere gli aveva offerto. La taverna Anema e Core di Capri è la stazione dove passano tutti quelli che vogliono regalarsi una canzone e una notte di baldoria. Guido Lembo teneva alta la chitarra di mille musiche e portava la camicia di mille fiori, incominciò a cantare ’O Sole Mio. Il maestro, gli stava accanto Monica la seconda moglie, sembrò come illuminarsi, improvvisamente. Prese a mormorare le parole, poi le sussurrò, Lembo si accorse che stava per accadere qualcosa, lasciò la pedana, fatto inedito, lentamente si avvicinò, seguitando a suonare ma con rispetto, aspettando. Giuseppe Di Stefano aprì appena la sua bocca, ne venne fuori una magica melodia e poi la nostalgia, tutt’intorno i clienti, americani, tedeschi, ragazzi del rap e del soul, ascoltavano estasiati, chiedendo chi fosse quell’uomo con i capelli bianchi di latte e gli occhi di lapilli, con la voce così forte, così dolce, così immensa senza l’ausilio di un microfono. «O professòr!», disse Guido Lembo con la faccia piena di sole e di gioia. Fu quella l’ultima sera, l’ultima volta in cui Giuseppe Pippo Di Stefano cantò. Era l’ultimo spicchio di estate, il maestro lasciò la luna caprese e se ne partì per il Kenya, nella sua dimora, alla ricerca ancora del caldo. Un gruppo di banditi, la notte del tre dicembre del duemila e quattro, fece irruzione nella villa, i cani da guardia furono spaventati da alcuni colpi di pistola lanciarazzi, quelle che si usano sulle barche, Monica venne strapazzata, un amico della coppia picchiato e derubato, Di Stefano, con problemi di deambulazione, perse l’equilibrio dopo una spinta, cadde a terra e battè il capo. I delinquenti gli strapparono il bracciale d’oro donatogli da Maria Callas e la catenina d’oro con la medaglietta firmata con l’effigie di Arturo Toscanini. Scese il buio su Pippo Di Stefano, sulla sua esistenza. L’intervento chirurgico a Mombasa, le altre cure mediche in Italia non gli hanno mai restituito la luce, la vita. Aveva regalato l’ultima imprevista, grandiosa emozione a un gruppetto di nottambuli isolani, dopo aver riempito il mondo, l’Europa, le Americhe, l’oriente con la sua voce, scoperta per caso grazie a una partita di scopone.

«Vittoooria!» urlò posando le carte sul tavolo e Danilo Fois, un avvocato, che gli stava di fronte, capì di avere a che fare con un fenomeno: «Tu devi cantare, tu devi studiare» gli disse mentre Pippo raccoglieva le lire, poche e pensava di trastullarsi. Cosa che gli sarebbe piaciuta assai, tra casinò, teatri, belle donne, auto sportive, ville e dimore fastose, vita dolce e dolce vita nei favolosi anni Cinquanta. Senza mai dimenticare il rigore e l’equilibrio che gli aveva trasmesso suo padre Salvatore, carabiniere in congedo, e l’amore per Gesù e la famiglia di sua madre Angelina, sarta. Giuseppe aveva la testa calda come gli occhi, a scuola andava come andava, pensava di farsi sacerdote, seguendo le preghiere di Angelina, venne anche bocciato al diploma magistrale, fu quasi una tragedia. A Milano, dove i Di Stefano si erano trasferiti a Porta Ticinese, Pippo non pensava ancora al lavoro vero, dopo quella partita a scopone, si era messo a cantare in osteria, in via Tadino, in via Molino delle Armi, finita la cena si passava con le melodie, soprattutto napoletane. «Con quella voce lì al massimo te fà el cadregatt», quello che aggiusta le sedie, gli disse uno degli insegnanti ai quali si era rivolto. Scoppiò la guerra, il fante Di Stefano partì per il battaglione mortai di Alessandria, quindi come tutti i mammoni ottenne il trasferimento a casa ma aveva fatto colpo per la voce, con la quale riusciva a tenere su il battaglione. Il capitano Tartaglione, napoletano verace, ne segnò il destino: «Tu, come soldato, si’ nu fetente, come cantante potrai essere utile all’Italia». Promosso sul palco evitò di partire per la Russia. Vittoooria, un’altra volta. Sfruttò l’occasione inventandosi un nome d’arte, Nino Florio, sempre un pezzo profumato e nobile di Sicilia. Così cantava al ristorante Odeon, all’Ambrosiano, inseguendo pupe, moltissime, e lire, pochissime, raccontando barzellette e perdendo il cuore per la cassiera del teatro Cristallo, stringendo amicizia con cantanti di musica leggera che si chiamavano Luciano Tajoli e Nino D’Aurelio. Quest’ultimo padre di Johnny, «D’Aurelio» pronunciato all’americana diventò «Dorelli». La coppia Pippo-Nino avrebbe fatto follie non soltanto musicali, in Europa e negli States. L’otto settembre fu l’altra svolta. Un ufficiale tedesco lo fermò chiedendogli i documenti, Pippo mostrò la carta di identità sulla quale stava scritto «Cantante». Il tedesco doveva amare la musica e chiese: «Come Ghighli?». Voleva dire Gigli, Beniamino. Di Stefano non si limitò a confermare, il sangue siculo e la vita milanese ribollirono: «Io? Molto di più, molto meglio di Ghighli». Fu vestito da infermiere, andò alla ricerca della brunetta cassiera al Cristallo, finì in Svizzera attraversando il fiume con tutti gli abiti e l’acqua che gli arrivava al petto, lavorò a raccogliere patate e anche qui un caporale, Hag il nome, gli regalò un abito, un cappotto e lo spartito della Traviata in tedesco perché imparasse la lingua. Venne la pace, vennero allora gli anni dorati, lo studio, l’esordio, il melodramma, la carriera mondiale, il cantante dalla voce grezza fece impazzire melomani e donne. Fu struggente la sua storia, professionale e d’amore, con Maria Callas. Scese la nebbia sui suoi occhi di pece quando la figlia Luisa lasciò la vita a ventuno anni, afflitta da un male perfido.

Maria, la prima moglie, gli regalò Floria e Pippetto che del padre conserva, oltre a documenti, film, registrazioni, gli occhi, neri, caldi, lo spirito di battaglia, il carattere esplosivo e cupo assieme, l’isola di Sicilia. Oggi è silenzio, domani i funerali a Santa Maria Hoè. Rivedo la luna di Capri, sento una voce che riempie il cielo.

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