I nostri soldi. I loro stipendi. Sono i presidenti, gli amministratori delegati o unici - sulla terminologia della nomenklatura c’è grande fantasia - i direttori di enti, partecipate, controllate di Stato, comuni e frammenti vari della pubblica amministrazione. Un mondo ovattato, che una volta a grandi linee si definiva il parastato, un potere discreto all’ombra dei cento palazzi, una casta nella casta che non sta in prima linea ma nelle retrovie. Lontano dai riflettori. Eppure questi signori hanno retribuzioni elevate, talvolta altissime e, soprattutto, bravi o no intascano i nostri soldi.
I grand commis, definizione abusata, e più in generale i manager pubblici gestiscono realtà diverse. Alcune in piena efficienza, altre disastrate; spesso questi personaggi, con ottime entrature nel mondo dei partiti, guidano veri e propri colossi. Dunque, almeno in qualche caso, le retribuzioni hanno sulla carta una loro logica. I numeri però fanno una certa impressione. Il presidente dell’Anas Pietro Ciucci, il custode delle nostre strade, porta a casa cinquecentomila euro. Più altri duecentocinquantamila euro alla voce retribuzione variabile. Il totale è di settecentocinquantamila euro lordi. Per la cronaca il decreto salva Italia, appena varato dal governo Monti, aveva, anzi avrebbe fissato un tetto invalicabile a quota 311 mila euro. Più o meno lo stipendio del primo presidente della Cassazione. Ma all’ultimo minuto il decreto è stato svuotato perché si è aperta nel tetto una botola larga così: sono è previste deroghe per le posizioni apicali. Insomma, la via di fuga è aperta.
Le retribuzioni lievitano. Dal Nord al Sud. Dall’Anas al Casinò di Campione. Campione d’Italia ma anche di incassi per l’amministratore delegato e direttore Carlo Pagan. Per lui l’asticella è fissata a quota 420 mila. Niente male per un manager che è espressione di un consiglio d’amministrazione in cui si ritrovano il comune, le province di Lecco e Como e le relative camere di commercio. La giustificazione per il superstipendio è molto semplice: Pagan, che arriva dalla roulette di Venezia, non ha paracadute: se cade, deve arrangiarsi. E con la casa da gioco in rosso per 20 milioni il futuro è nuvoloso. Ma per ora l’ad resta in quota.
Come i supermanager che guidano le partecipate dal Comune di Roma. Un poker di società: l’Ama, che si occupa di rifiuti e ha 8 mila dipendenti; l’Atac, la più grande azienda di trasporti d’Europa, una cittadella con 13 mila abitanti; Risorse per Roma e Roma metropolitane. Salvatore Cappello, ad di Ama, viaggia, tutto compreso, intorno a quota 350 mila; Carlo Tosti di Atac sta sulla linea dei 267 mila; Roberto Diacetti di Risorse Rpr è a 185 mila; Federico Bortoli di Roma metropolitane è a 225 mila. Cifre importanti, ma nell’era Veltroni chi guidava le municipalizzate stava meglio. Poi Gianni Alemanno ha fissato un tetto, a 350mila euro, e i manager si sono più o meno adeguati. Più o meno. Molti hanno accettato la riduzione, ma Gioacchino Gabbuti, ad di Atac Patrimonio, è rimasto oltre la linea dei seicentomila. Altro che tetto. Il suo reddito è equivalente a quelli di una trentina di autisti dell’Atac.
Difficile capire i criteri. Il presidente dell’Istat, il professor Enrico Giovannini, guadagna 270mila euro. Giovannini, per la cronaca, era uno dei saggi che avrebbe dovuto ricalcolare gli stipendi di deputati e senatori parametrandoli sulla media europea. Un lavoro interrotto bruscamente, perché il Parlamento ha rivendicato la propria autonomia e si taglierà a modo suo le buste paga. Giovannini prende meno, molto meno, del direttore dei Monopoli di Stato Raffaele Ferrara che in un anno incassa 474 mila euro.
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