La storia ci insegna che la faziosità l’abbiamo nel sangue

Caro Granzotto, se oggi le scrivo è perché - conoscendola per appassionato ed esperto storiografo - desidero prospettarle un’analogia storica che da tempo mi arrovella: Berlusconi/Di Pietro-Pd e compagni da un lato, Federico II/Gregorio IX e Innocenzo IV dall’altro. Purtroppo debbo constatare che se, dal 603 al 1860 - dalla divisione dell’Italia tra longobardi e bizantini, alla così detta unificazione - la storia della penisola ha camminato su binari differenziati, purtuttavia, nel XIII secolo, con il grande Federico II prima, e con suo figlio Manfredi, poi, il progetto di unificazione era vivo. E se non si è realizzato dobbiamo solo ringraziare Gregorio IX, Innocenzo IV ed i loro (quattro) successori. In particolare Gregorio ed Innocenzo hanno costretto Federico - un Imperatore che aveva iniziato e desiderato fortemente governare con il diritto e non con le armi - a pronunciare le terribili parole: «Sino ad ora sono stato incudine, ora voglio essere martello». Purtroppo vedo l’opposizione attuale ripercorrere quella strada di odio già percorsa, a suo tempo, da Gregorio, Innocenzo e compagni; strada che, all’epoca, ha impedito quell’unificazione dell’Italia, non solo auspicabile e auspicata ma concretamente fattibile. Una strada che oggi non consente al governo di lavorare in pace, sta dividendo l’Italia e la sta danneggiando in campo internazionale. Se quel ribaltone - per altro irrealizzabile - sognato da Di Pietro, Pd e compagni, dovesse per caso verificarsi, per l’Italia sarebbe il disastro.


Raffronto alto, il suo, gentile lettrice, ma pertinente. Dalla caduta dell’Impero romano non abbiamo fatto che scannarci e, il più delle volte, non metaforicamente. Discordia e fazione si può dire che l’abbiamo nel sangue. Non a caso uno dei vanti della nostra civiltà è l’Italia dei Comuni che in un certo senso codificò il campanilismo e di conseguenza le rivalità locali e addirittura rionali, ancora ben vive e alimentate, come il Palio di Siena insegna. Difficile se non impossibile trovare nella nostra storia un momento, un episodio unificante. C’è sempre stato chi si poneva «contro», anche se questo significava gettare coscientemente al vento occasioni vantaggiose per il Paese o per la comunità. Pronto, per giustificare e legittimare il proprio «contrismo», a qualsiasi canagliata: Michele Amari, per dire, ebbe la sfrontatezza di sostenere, nella sua Storia dei musulmani in Sicilia, che la vittoria degli arabi su Ottone II a Punta Stilo (13 luglio 982) anticipò quella di Legnano sul Barbarossa. Ora io non dico che il Sacro romano impero fosse, per noi, il meglio del meglio. Ma suggerire come desiderabile la dominazione musulmana, beh, ce ne vuole. Di discordia in discordia siamo giunti alla contesa odierna resa ancor più acuta dal fatto che una parte, i «sinceri democratici», si credono antropologicamente diversi. E cioè in grado essi solo di distinguere il giusto dall’ingiusto, il vero dal falso. Ciò che è peggio e che rappresenta un peccato d’orgoglio di proporzioni planetarie, è che per vezzo giacobino essi ritengono anche di sapere quale sia il bene per la collettività, fermo restando, poi, che sulle loro certezze non sono disponibili a quel «confronto» che pure invocano ogni due per tre. Io non ho speranza che si possa giungere a un riavvicinamento nel nome del bene comune, gentile lettrice.

Mi consola però la circostanza che, al momento, il «contrismo» è rappresentato dai repubblicones ridotti a frugacchiare fra le lenzuola altrui e da una sinistra che s’appresta, sull’onda delle primarie, ad eleggersi a duce quel tipo ameno d’un Franceschini. Il quale renderà concreto, tangibile, l’incubo che perseguita da mezzo secolo la sinistra. Morire democristiani.

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