Politica

La storia controcorrente del Cavaliere

Pubblichiamo per gentile concessione dell'editore il Mulino alcuni stralci del saggio di Ernesto Galli della Loggia "Tre giorni nella storia d'Italia". Il volume si sofferma su tre momenti fondamentali nelle vicende del Paese: la Marcia su Roma, le elezioni del 1948 vinte dalla Dc e le elezioni del 1994 caratterizzate dal successo di Berlusconi

Il successo di Berlusconi è figlio in qualche modo, ma certo in misura significativa, del grande vuoto socioculturale apertosi in Italia dagli anni Settanta-Ottanta in poi. Non già per colpa della televisione, come si dice, bensì per effetto di trasformazioni profonde del tessuto sociale. Negli anni Settanta-Ottanta giunge infatti a termine il processo di modernizzazione del paese iniziato all’incirca mezzo secolo prima. Anche in conseguenza di ciò cominciano a perdere rapidamente influenza la famiglia, la Chiesa e la scuola, vale a dire i tre principali canali che fino ad allora avevano assicurato la formazione della personalità individuale e degli orientamenti collettivi.

Regge ancora, ma per poco, la quarta grande agenzia formativa, che in certa misura era stata il motore e la vera anima della modernizzazione italiana: la sfera della politica con i suoi protagonisti, il partito e il sindacato. Ma con gli anni Ottanta-Novanta anche il partito e il sindacato, sempre più marginalizzati dalla nuova economia della globalizzazione e dal discredito crescente che colpisce la politica in generale, cessano di rappresentare quelle forze aggreganti e strutturanti che erano in precedenza. L’Italia si è allora venuta a trovare priva di punti di vista, di prospettive e di ancoraggi sociali stabili.

Con la fine della Prima Repubblica questa condizione di instabilità, di fluidità e insieme, per certi aspetti, diciamo pure di inconsistenza, non ha fatto altro che estendersi anche all’universo politico. È come se, una volta giunta a compimento la modernizzazione italiana, fosse giunta contemporaneamente alla sua fine anche la Prima Repubblica - che ne era stata in certo senso l’acme - e insieme alla Prima Repubblica pure l’insieme delle culture politiche (dal socialismo al cattolicesimo politico, al gramscian-comunismo e mettiamoci pure il fascismo) che erano state all’origine della lunga fase storica che dalla prima guerra mondiale va agli anni Settanta. È un intero sistema di significati, di idee, di valori, di simboli, di modelli umani che entra in crisi e si dissolve. Ed è anche la memoria di un passato che repentinamente s’indebolisce, dando l’impressione talvolta di venire addirittura cancellata.

Quello che si chiama «berlusconismo» non è il frutto di qualche oscura degenerazione morale che ha colpito una parte del popolo italiano. Nasce dalle viscere della crisi sopra detta: allorché si dissolve ciò che c’era prima di solido e di strutturato e non compare ancora nulla in grado di sostituirlo. Esso corrisponde a una fase d’incertezza, di trapasso. In certo senso corrisponde sì a un vuoto, come ho detto, ma non a un vuoto morale. Piuttosto a un vuoto d’immaginazione e di pensiero sociali, di modelli, di idee e di prospettive forti, che oggi sembra caratterizzare tutto l’organismo italiano. Un vuoto nel quale è giocoforza accontentarsi di ciò che c’è senza puntare su ciò che non c’è.

E nel quale quello che c’è è sempre meno, sempre più stanco e più opaco. Silvio Berlusconi ha saputo vedere e interpretare meglio di ogni altro questo vuoto, e lo ha utilizzato per costruirvi un disegno politico a suo gusto e misura. Non già facendo appello a chissà quali pulsioni liberticide e autoritarie, che in verità all’Italia sono mancate anche quando vi regnava un regime che liberticida e autoritario lo era davvero. Bensì strizzando l’occhio complice - mi pare l’espressione più adatta - agli animal spirits dell’imprenditoria diffusa, al particulare egoistico e al buon senso della piccola gente, al gusto per la favola televisiva e per i suoi eroi di plastica dei troppi incolti che la nostra scuola lascia tali, al desiderio di sicurezza dei tanti anziani che ormai si affollano nelle città e nei paesi d’Italia. Facendo leva sul desiderio ancora più tenace di tutti costoro di non essere governati da chi - essi credono - non li capisce, non è fatto della loro stessa pasta, dei loro stessi umori. Come invece gli appare Berlusconi (ed è la sua vera, decisiva, carta vincente): uno di loro, incommensurabilmente diverso ma al tempo stesso familiarmente eguale.

Tutto ciò serve semplicemente a ricordarci che non sempre la democrazia ha l’aspetto radioso dei suoi alti principi e delle sue grandi promesse. Talvolta capita che essa esibisca un volto grigio e dimesso, sul quale non riusciamo a scorgere alcuna luce. È un volto che può non piacerci.

Ma che non per questo può o deve farci paura.

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