Levi alto il calice, controluce, per scrutare, indagare, gustare innanzi tutto la trasparenza. È la prova per attribuire il diploma. Poi, con gestualità quasi sacrale, passi allesame - quale esame? la laurea! - del colore, per come si manifesta quando inclini il vetro limpidissimo su un drappo candido. Infine, provi a vedere se puoi assegnargli il master, a quel nettare che scalda il cuore e fa sprigionare il meglio dalla mente (purché non se ne abusi, è chiaro). E allora lo accompagni delicatamente allolfatto, dopo aver guardato - ma che guardato! ammirato - gli archetti sostenuti dallalcol in quel «contenitore» che devessere stato lavato a mano (altrimenti il brillantante della lavastoviglie ne avrebbe compromesso la ruvidità). Ma quel nettare, prima di assaggiarlo, lo fai ruotare ancora per qualche istante con garbo e rispetto, il garbo e il rispetto che si devono, eccome, alla storia che è contenuta nel bicchiere: storia di persone e di territori, di passione e fatica, di sfide e orgoglio, di sapienza e pazienza, di natura e tecnologia, sì, anche di tecnologia, senza la quale si sarebbe rimasti per sempre al «bianco o nero?», ovvero al «frizzantino della casa». Proprio quello che ti stende un velo sugli occhi, e poi ti stende, punto. Invece oggi, è tutta unaltra faccenda.
Ce la racconta - con documentazione ineccepibile, e con stile scorrevole, come un vino di pronta beva - Antonello Maietta nel volume «Vini di Liguria, VinidAmare» (Edizioni Corigraf). Certo, la selezione si limita al «terroir» fra Ventimiglia e La Spezia, interno compreso; certo, riconosciamolo pure: si parla e si offrono immagini di una regione che è stata a lungo cenerentola dal punto di vista enologico. Ma è altrettanto vero che dalle pagine di Maietta scaturisce la sintesi di un itinerario universale, che mette al centro il vino, ma soprattutto chi lo produce e come lo produce, indipendentemente dai vincoli geografici. È in questo senso, pertanto, che la Liguria «può ben dire la sua», senza il rischio di sfigurare rispetto ai celebrati giganti della tradizione (e del marketing). La verifica è sul campo: nel testo che illustra una sorta di mappatura di eccellenze, e nelle fotografie che documentano non solo e non tanto un ambiente naturale straordinario, ma anche quella voglia matta dei vignaioli liguri di trarre il meglio, e magari molto di più, dalla zolla riarsa, dallaria salmastra, dai declivi scoscesi.
Cè tutto questo nel libro, dove già nel titolo e in quel gioco dellacronimo «VinidAmare» (derivato dalla rassegna promossa dal Comune di Camogli) sta gran parte dello spirito dellautore. Sono di mare e anche da amare veramente, i vini che nascono qui, come fossero figli difficili da crescere, che impegnano a volte allo spasimo prima di regalare ai genitori, e agli amici, e agli estimatori non prevenuti, tante belle soddisfazioni. Ecco perché la Liguria può diventare un piccolo simbolo dellenologia nazionale, se soltanto si riesce - sì che ci si riesce, volendo... - ad andare oltre i parametri e le esigenze della produzione industriale o del rigido rapporto qualità-prezzo. In questo modo, non sfigurano sicuramente i produttori che Maietta mette in evidenza - e in par condicio, senza infingimenti - nella pagine patinate del volume. Ci sono quelli che si sono già fatti strada e fama: citiamo a caso, da un capo allaltro della regione, Bisson, Pino Gino, Walter De Batté, Lupi, Guglielmi, e quel Bruna che tanto ricorda le grandi stagioni del «Premio Ronseggin dou» voluto dal pioniere Franco Solari, del CaPeo a Leivi. E infine ci sono alcuni produttori bene avviati - Punta Crena, Cimixa, Ca del Mar - che «fanno Igp», Indicazione geografica tipica, al di là del rigido disciplinare della Doc.
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