Gian Marco Chiocci
Mario Sechi
da Roma
Sullo sfondo del Niger-gate da tempo è in atto una guerra strisciante, silenziosa, fra agenzie di intelligence. Una interna alla Cia, l’altra tra la Dgse francese e l’Mi-6, il Servizio di Sua Maestà. All’origine dei forti «dissapori» tra Francia e Gran Bretagna vi sarebbe l’ambiguo comportamento tenuto da Parigi nel fornire ai colleghi di Londra quelle stesse notizie sui traffici di uranio fra Niger e Irak che poi rimbalzano nel falso carteggio che era nelle mani di Rocco Martino, il free lance dello spionaggio al soldo degli 007 transalpini. Per un accordo fra le due strutture d’intelligence, quelle notizie la Francia le aveva passate alla Gran Bretagna garantendo attendibilità massima, ma imponendo il silenzio sulla «fonte» con chiunque, americani compresi. Alla luce dei fatti, è un vincolo pesante perché fa ricadere sull’Mi-6 ogni responsabilità sullo scoppio della guerra. Il discorso di Bush su Saddam infatti si basò sulla relazione inglese. Ecco il perché degli «omissis» presenti nel rapporto del Senato americano a proposito del foreign service che avrebbe dato alla Gran Bretagna (e quindi agli Usa) le informazioni sull’esistenza di tentativi di acquisto di tonnellate di yellow cake da parte di Saddam Hussein.
Da qui gli equivoci e i tentativi di scaricare sul Sismi responsabilità che sono di altri. Il report britannico sulle armi di distruzione di massa, faceva riferimento oltre che alle notizie dei francesi, anche a informazioni provenienti da intercettazioni sui funzionari di Saddam. Del carteggio taroccato non v’è traccia nei report inglesi, anche se qualcuno ha cercato di farlo credere a mezzo mondo. Con il senno di poi, a stangata subita, gli analisti di Vauxhall Cross hanno cominciato a riavvolgere il nastro del Niger-gate. A forza di rileggere gli eventi, si sono convinti di esser finiti in una trappola. Orchestrata da chi? Dai francesi? Che già dall’autunno del 2000 sapevano del dossier falso e hanno taciuto fino alla vigilia della guerra? Il sospetto del raggiro si è irrobustito col tempo e in particolare quando Rocco Martino, a guerra scoppiata, e con Bagdad capitolata, il 27 luglio del 2003 si presenta all’ambasciata inglese a Bruxelles - città dove abitualmente incontra il suo contatto nella Dgse - e cerca di piazzare il manoscritto contraffatto giurando essere cosa diversa rispetto a quello noto, di cui tutti parlano.
Martino al Giornale ha spiegato che così non è, che in realtà puntava a raggranellare qualche soldo raccontando la sua versione della storia. All’Mi-6 però c’è chi pensa che lo scopo finale fosse quello di piazzare il bidone. A che fine? Mettere in mano agli inglesi del materiale avariato e poi far uscire la notizia sulla stampa. Un doppio e triplo gioco che sembrerebbe incomprensibile, ma quando si punta a confondere le acque e depistare, anche una mossa illogica ha una sua ragione d’essere. E infatti a Downing Street il comportamento delle spie francesi non è piaciuto. Tanto che il governo di Tony Blair avrebbe dato il via libera all’Mi-6 e ai «cugini» dell’Mi-5 di investigare a 360 gradi sull’affaire. Puro controspionaggio. Gli inglesi a forza di scavare nel Niger-gate alla fine o trovano uranio o scoprono petrolio. O si va in Niger o si finisce in Irak, ma in entrambi i casi le impronte digitali sono francesi. Il consorzio transalpino della Cogema ha il monopolio sulle miniere d’uranio nigeriane, mentre i barili di petrolio di Saddam richiamano lo scandalo Oil for Food dove Parigi (e la banca Bnp Paribas) ha un ruolo di primo piano. Aprendo i barili di Saddam salta fuori di tutto. Persino ricostruzioni che aprono scenari imprevisti. Diverse agenzie di intelligence si ritrovano tra le mani il seguente quadretto: i francesi della Cogema sono in affari con i magnati del petrolio, compreso il gruppo americano Rockefeller. Questo nome evoca immediatamente il secondo estrattore di petrolio al mondo, la Exxon che è presente nel Paese africano attraverso la Esso Exploration & Production Niger. Intrecci. Ma c’è un altro socio: la francese Elf Aquitaine. Il link secondo alcuni osservatori sulle rive del Tamigi è da «cliccare». Anche perché un autorevole esponente della famiglia Rockefeller oggi è il vicepresidente dell’Intelligence Committee americano e uno dei più accaniti avversari del governo Bush: il senatore Jay Rockefeller IV. Quest’ultimo - dopo aver sostenuto la guerra - è impegnato in una campagna contro la Casa Bianca, l’Fbi e il Sismi. Secondo lui - e i blog e giornali che rilanciano le sue tesi - si deve indagare sull’Italia, ma tace sul ruolo della Francia. Così, interessi petroliferi americani e francesi (Texaco, Chevron, Mobil, Elf Aquitaine ecc.) in Irak e intrecci politici trasversali finiscono per catturare l’attenzione degli analisti. E anche della magistratura.
Chi indaga nel Palazzo di Vetro sull’Oil for food assieme a Paul Volcker? Miranda Duncan, nipote di David Rockefeller. La Duncan poi si dimetterà in seguito alle polemiche sull’indagine - e il conflitto di interessi - che coinvolge le Nazioni Unite e la stessa commissione d’inchiesta, con la Duncan in prima fila visto che è la nipote di un Rockefeller. Dietrologie? È ancora presto per dirlo, il rapporto della commissione Volcker (un presidente che ha un curriculum pieno di legami con i Rockefeller) sull’Oil for food è stato consegnato il 27 ottobre scorso.
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