SVIT La cantante che non ama le rose

«Il pubblico batteva i piedi e gridava. Si ammutolì quando lei slegò il mazzo e lo scagliò con tutte le sue forze in sala»

«Come si chiama?»
«Lejka».
«Lejka?».
«Lea Kralj» si è corretta, alzando gli occhi dal brodo che con esile getto riempiva via via la tazza di porcellana. «A casa mi chiamano Lejka».
«A casa dove?».
«A Lubiana».
«Lubiana?».
«La conosce?» ha domandato, afferrando il manico del recipiente di ottone con il beccuccio all’ingiù, una sorta di samovar per il brodo di manzo, e aspettava che le rispondessi di sì.
Oggi posso dire che fino a quel momento non avevo mai sentito parlare di Lubiana e che per la prima volta mettevo piede in quel locale, dove mi aveva dato appuntamento e dove i vecchi madrileni sorseggiano brodo di manzo per tutto il santo giorno.
Mi sono guardato intorno come se stessi pensando a qualcosa e ho continuato con le domande. Sua madre vive a Lubiana, e anche lei, quando può, specialmente d’estate, l’estate sempre, ha detto. È a Lubiana che ha cominciato a cantare, nel coro, poi è andata a Parigi, dove ha fatto i lavori più vari e ha preso lezioni di canto da madame Kudelka. Avevo mai sentito parlare di madame Kudelka? Ha trentasette anni. Non è sposata e non ha figli. Le piace camminare, sì, cammina per ore. Il suo colore preferito è l’arancione...
«Perché mi chiede tutto questo?» ha corrugato la fronte girando la manovella del samovar per interrompere il getto giallognolo e il borbottio del liquido nella tazza. L’ha portata alle labbra e subito l’ha allontanata. Il brodo era evidentemente troppo caldo e le aveva scottato le labbra.
«Perché sembra che lei venga dal nulla».
«Per lei Lubiana è il nulla?».
«Voglio dire che nessuno sa niente di lei».
Di nuovo ha abbassato il viso sul brodo.
«Il suo curriculum è quasi vuoto. Il suo repertorio, sconosciuto. È comparsa all’improvviso. Ieri».
Si è guardata intorno.
«Sicuramente ha visto i giornali di oggi: È nata una primadonna - Incidente dopo il trionfo - Il Trittico ha un solo cuore - La primadonna non ama le rose» elencavo i titoli.
«Ma non è vero...».
«Non è vero cosa?».
«Che non amo le rose».
«In ogni caso il suo gesto è incomprensibile. Inaudito, addirittura indimenticabile, direi».
«È per questo che ha voluto intervistarmi?».
«Anche per questo! Un soprano che dopo il trionfo di cui siamo stati testimoni ieri alla Zarzuela, scaglia sul pubblico l’enorme mazzo di rose rosse offertole da uno degli spettatori...».
Ha posato bruscamente la tazza e il brodo è schizzato sul tavolo.
«Offerto?» ha alzato la voce. «Mi è arrivato dritto addosso. Un grande mazzo di rose rosse, come dice lei, ma con le spine».
«La sala era tutta ai suoi piedi, se così posso dire. Ribolliva d'entusiasmo. E lei...».
«Mi ha colpita sul collo, sul petto, sulle braccia... Graffiata. Le basta?».
«Le ha strette a sé come se fossero i fiori più teneri del mondo. Il pubblico continuava a battere i piedi e a gridare. Si è ammutolito solo quando lei è andata sul bordo del palcoscenico, ha slegato il mazzo, l’ha scagliato con tutte le sue forze in sala e poi...».
«Si sono sciolte in aria, da sole...».
«Da sole? Forse... Comunque, non me ne importa niente» ho detto a un tratto con sincerità, allungando la mano verso una tazza vuota.
Si è spostata verso di me come se non avesse sentito bene.
«E allora perché mi fa tutte queste domande?» ha sussurrato, incredula.
«Volevo vederla da vicino» ho sussurrato a mia volta.
Ha fatto una breve risata, come se fosse tutto, come se non avesse altro da aggiungere. Ha arrotolato le maniche dell’impermeabile e si è appoggiata con i gomiti al bancone, come per dire: prego, il profilo sinistro, anche di fronte, se vuole. Qualcuno voleva intrufolarsi tra noi e mi sono accostato ancora di più a lei. Ognuno per proprio conto, raccoglievamo i nostri pensieri e incrociavamo i nostri sguardi senza imbarazzo.
«Ecco, questa è fatta...» ha detto quando meno me l’aspettavo. Ha preso dal bancone le sue cose e si è diretta verso l’uscita.
Dopo qualche passo si è girata: Adiós, ed è scomparsa nella folla.
Nessuno mi aveva chiesto di intervistarla. Il direttore di «Petronius» era in vacanza, come me. L’ho fatto per Pablo. Pablo si interessava a tutto: letteratura, lirica, botanica... Volevo avere qualcosa da raccontargli. Comunque posso formulare la domanda in altro modo. Per esempio: che legame c’era tra Pablo Ortez e Lea Kralj? Nessuno. O meglio, soltanto questo: senza Pablo non avrei mai conosciuto Lea Kralj.
La notte seguente ho dormito nel letto quadrato di Pablo. Pablo aveva un corpo vigoroso, un intreccio di corde che gli correvano sotto le spalle, si riunivano sotto il petto, giocherellavano intorno al bacino e si allungavano lungo le cosce e i polpacci. Della canapa ben attorcigliata, ricoperta di velluto in forma di pelle. \
«Riguardo alla tua primadonna...» ha detto sempre con gli occhi chiusi. \
«Com’è da vicino?» ha chiesto, improvvisamente fresco e riposato, e solo allora aprendo veramente gli occhi.
E in quel momento, per la prima volta dalla sera precedente, ho pensato a lei. Ho cercato di vederla, davanti a me, così vicina come al Coq Hardi, quando siamo rimasti in silenzio e lei ha appoggiato i gomiti sul bancone.
«Alta. Non proprio bella, ma nemmeno brutta. Dipende dall’angolazione. Ha occhi grigi tagliati profondamente. Grigi, come se si preparassero alle lacrime. Porta un impermeabile corto, stretto in vita.

E soprattutto un foulard in testa, chiaro, con degli uccelli variopinti su uno sfondo color sabbia. E in un caldo pomeriggio di ottobre...» sciorinai, mentre mi infilavo i pantaloni di tela. «Per il resto, è slovena. Hai mai sentito parlare di una slovena?».
«Sì, sì» ha annuito. «Tutto qui?» ha chiesto.

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