Teatro Litta

In «Zio Vanja», il testo forse più celebre e più rappresentato di Anton Cechov, si sommano diversi livelli di lettura. Il primo, comune a tutte le opere del grande drammaturgo russo, riguarda un preciso contesto storico-culturale in cui si esprime l'identità profonda di una comunità etnica. Stiamo parlando della Russia dell’ultimo decennio dell'Ottocento e dell’ultimo zar, la nazione europea in cui il dissidio fra tradizione e modernità, tra idealizzazione del passato ed esaltazione di un futuro dai contorni mitici, fra costumi ancestrali e suggestioni del progresso tecnico-scientifico si è manifestato in forma esemplare. C'è poi un livello più propriamente esistenziale, che consiste in un'indagine sulla disillusione, sul senso di un irreversibile declino, sul tramonto di un ben definito modello antropologico, senza che all'orizzonte se ne profili un altro in grado di sostituirlo. E' presente infine un ambito più specificamente drammaturgico, una verifica della possibilità di esprimere verità universali attraverso l'evocazione di vicende estremamente particolari, una tensione (più tipica del teatro novecentesco che di quello ottocentesco) a ricreare sul palcoscenico situazioni minime, contesti quotidiani che possiedono qualcosa di definitivo, di assoluto. Già da questa sommaria analisi si può intuire quanto «Zio Vanja» sia attuale: con quanta lancinante precisione il passato di Cechov assomigli al nostro presente, lo ricalchi quasi fedelmente, soprattutto nei suoi aspetti più crepuscolari. Nella sua trasposizione del capolavoro cechoviano, in scena al Litta sino all'11 aprile (info: 02-86454545, teatrolitta.it), Giovanni Scacchetti è partito proprio da queste analogie, sottolineate anche sul piano linguistico da una traduzione dall'originale russo effettuata appositamente da Fausto Malcovati. La storia degli intricati rapporti tra Vanja, il professor Sieribriacov, la sua giovane e bella moglie Elena, la figlia di primo letto Sonia e il dottor Astrov, sullo sfondo di una tenuta di campagna da cui tutti vorrebbero fuggire, tende ad assomigliare a una drammaturgia dei nostri giorni, in cui la sospensione, l'abulia interiore, il sentore di una catastrofe incombente sono all'incirca sottintesi. La regia di Scacchetti tende a far prevalere il livello esistenziale del testo sia su quello storico-culturale sia su quello drammaturgico, anche a costo di qualche ingenuità e di alcune forzature nella messinscena.

La scenografia elegantemente bidimensionale, con molti tratti magrittiani, la recitazione scandita, il bel commento sonoro quasi minimalista evocano comunque una tensione morale così autentica da rendere lo spettacolo un evento raro nel panorama del teatro di ricerca contemporaneo.

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