Politica

Telecom, parla il superteste «Ora temo per la mia vita»

Gianluigi Nuzzi

Gian Marco Chiocci

nostri inviati a Bucarest (Romania)

Il superteste dell’affaire Telecom ci dà appuntamento nella hall di un grande albergo di Bucarest. Marco Bernardini, cinquant’anni circa, un passato come agente operativo per il Sisde, detective consulente del gruppo Pirelli per il quale cura la sicurezza nell’area danubiana, è scampato all’arresto in extremis. Il suo nome è in cima all’elenco dell’ordinanza di custodia cautelare che ha mandato in galera venti persone, tra cui il manager Giuliano Tavaroli e l’investigatore privato Emanuele Cipriani. Ci fa una premessa e una promessa: «Non parlo di cose coperte dal segreto istruttorio, ma vi do le giuste chiavi di lettura di una storia che non è quella che leggo sui giornali».
Signor Bernardini, si considera un pentito?
«Non sono pentito perché ritengo che quando un magistrato che rappresenta lo Stato pone delle domande, è giusto rispondere. E peraltro nessuno si è accorto, o fa finta di non accorgersene, che gli ordini di custodia cautelare erano pronti già dalla metà di luglio mentre io sono stato ascoltato solo ai primi d’agosto, ovvero a cose fatte».
Ma lei, «confessando», ha evitato il carcere e ha rivelato cose che hanno messo nei guai alcuni suoi coindagati...
«Intanto io non ho confessato nulla. Mi sono stati contestati fatti a cui io ho risposto: a un Pm si può non rispondere, mentire o dire la verità. Io ho scelto quest’ultima strada. Leggo sui giornali che le mie dichiarazioni occupano nove pagine, ma leggo anche che ci sono dichiarazioni “confessorie” che hanno riempito oltre 39 pagine, quindi non credo di essere io il pentito di cui si parla né il supertestimone. Un pentito ha dei benefici, io non ne ho avuti».
Evitare la galera è un bel beneficio...
«Se non mi hanno arrestato è perché evidentemente non ce n’era più motivo. E comunque io ho perso il lavoro. E da ieri sono anche preoccupato».
Sta dicendo che teme per la sua vita?
«Anche. Ma intendevo dire che sono pre-occupato, cioè avevo degli incarichi di consulenza con alcuni gruppi industriali che giusto ieri mi sono stati revocati. Non disoccupato, non inoccupato, ma pre-occupato».
Ha detto però che teme per la sua vita...
«Essendo indicato come il responsabile dell’arresto di 20 persone posso anche pensare che qualcuno si voglia vendicare mettendomi una palla in testa o che, pensando che io sia depositario di chissà quali segreti, pensi a togliermi di torno».
Questa storia di Telecom ha già un morto eccellente…
«Sì, il mio amico Adamo Bove. Persona stimata, professionista serio. Per quello che ho saputo era molto preoccupato che qualcuno potesse fare molto del male a lui e alla sua famiglia»
Qualcuno chi?
«Qualcuno che probabilmente ha cercato di screditarlo anche professionalmente. E non intendo i giornalisti che lo hanno esposto alla gogna mediatica ma qualcuno a lui molto vicino».
Lei ha fatto il nome al magistrato?
«Su questo punto non rispondo perché c’è il segreto istruttorio».
Se la dovessero chiamare i magistrati di Napoli che indagano sulla morte del manager di Tim, lei sarebbe disposto?
«Ripeto: se un magistrato chiede non vedo perché non rispondere».
Lei crede al suicidio dal cavalcavia della Tangenziale di Napoli?
«Io posso solamente dire che non prendeva l’aereo perché soffriva di vertigini».
Per restare a Bove, però, ci sono le dichiarazioni accusatorie della sua segretaria che parla di ordini inusuali che le venivano dati per fare ricerche sui tabulati attraverso il sistema «radar».
«Rimango profondamente perplesso. Adamo non faceva assolutamente queste cose. Io lo frequentavo spesso per discutere dei lavori di natura particolarmente delicata e non illecita che mi affidava riguardante la tutela dell’azienda da rischi di varia natura. Quasi tutti i dirigenti della Security di Telecom mi davano incarichi dello stesso tema».
I suoi rapporti con Tavaroli e Cipriani.
«Con il fiorentino (Cipriani, ndr) ho lavorato per un periodo di tempo, poi come tutti gli addetti ai lavori sanno, essendo persona che paga poco, molto in ritardo, che rincara del duecento per cento lavori fatti da altri, ho preferito interrompere ogni rapporto. Quanto a Giuliano (Tavaroli, ndr) è un caro amico, professionalmente è il migliore che ci sia, gli devo molto e mi è stato vicino in momenti difficili come io gli sono stato vicino fino a pochi giorni fa...»
Bell’amico se lei ha contribuito a mandarlo in galera.
«Guardi, quello che io ho detto è a verbale e non ne posso parlare. Il tempo è galantuomo, chi ha facoltà di leggere gli interrogatori sa che io non ho contribuito a mandarlo in galera, anzi. A condannare il mio amico ci hanno pensato altri, anche interni a Telecom. Giuliano dava fastidio perché è un professionista serio, non è quel mostro che viene dipinto. Non avrebbe mai accettato di farsi corrompere né avrebbe mai permesso che qualcuno danneggiasse il gruppo e Marco Tronchetti Provera».
Chi ha provato a corromperlo?
«Forse qualcuno, mandato da qualcun altro, provava a ottenere appalti o favori in maniera proprio non lineare ricorrendo anche alle minacce...».
Torniamo a Tronchetti Provera. In molti - secondo le vostre indagini - hanno provato a danneggiare il suo gruppo?
«Sì, e il fatto che nonostante le dimissioni del Presidente si siano continuati ad accanire sull’azienda vuol dire che probabilmente Giuliano era solo uno strumento per colpire più in alto. Non mi riferisco ai magistrati bensì a certe campagne stampa...».
Il riferimento va alle accuse di Tronchetti a Repubblica dopo il suicidio di Bove? Per questo lei ha indagato su De Benedetti?
«Vorrei far presente una cosa: tutti gli imprenditori se hanno il dubbio che qualcuno si comporta in maniera scorretta cercano di prendere informazioni. Non capisco perché se lo fa una multinazionale, la cosa deve suscitare scalpore. Avete scritto che noi schedavamo i dipendenti, nemmeno fossimo la Gestapo o il Kgb. Una follia. Vi faccio un esempio: c’era un dipendente che lavorava come autista del gruppo e con la macchina aziendale, una volta lasciato un alto dirigente, effettuava acquisti e vendite di modeste quantità di droga. Il compito della Security è tutelare anche l’immagine del gruppo oltreché l’integrità fisica dei propri dipendenti. Nessuno si scandalizza se le banche chiedono informazioni per farti aprire un conto, se le famiglie chiedono referenze sulle colf. Se Telecom si tutela diventa un reato. Assurdo».
Ma lei non ha risposto su De Benedetti...
«È scritto nell’ordinanza che ho fatto delle indagini, lo confermo. Se mi hanno dato incarico di farle evidentemente c’erano motivi validi».
Quali?
«Non ne posso parlare perché sono cose molto serie, e gravi. Comunque le ho riferite al magistrato».
Ha indagato su De Benedetti padre e figlio?
«Padre e figlio».
Ma quest’ultimo non lavorava in Telecom?
«Appunto, lavorava. Le prime veline su Telecom Serbia pubblicate su giornali non proprio amici dell’azienda, forse arrivavano dal suo entourage...».
Ha spiato giornalisti?
«Spiato è una parola grossa, diciamo che si cerca di avere delle chiavi di lettura su come alcuni cronisti, divulgando informazioni riservate sul gruppo, possono provocare un crollo in borsa a vantaggio di ditte concorrenti».
Ma perché proprio lei, e non altri investigatori, ha indagato sui De Benedetti?
«Perché uno dei compiti specifici che avevo era quello di indagare su dipendenti o dirigenti che abusavano del loro ruolo ai danni del socio o dell’azienda».
Ne ha trovati?
«Ne ho trovati, certo. Molti altri sono ancora al loro posto mentre Giuliano, che li aveva messi sotto audit, è dentro».
Politici spiati?
«No comment».
Sportivi?
«Non io».
Gente dello spettacolo?
«Poca roba».
Ma che c’entrano attori e veline con Telecom?
«Io non so il motivo per cui veniva chiesto un accertamento, magari queste persone speravano di poter essere appoggiate per lavorare su qualche televisione o magari fare spot per l’azienda».
Ha svolto lei indagini su Della Valle, Tanzi, Geronzi, Carraro ecc?
«Solo sul duo Della Valle-Tanzi. E dirò di più. Ho dato un importante contributo per il ritrovamento all’estero di parte del tesoro di Parmalat».
Lei passerà alla storia come il piromane di Telecom per il falò alle porte di Milano dove vennero distrutti i dossier più delicati. Come andò realmente? E cosa c’era in questi rapporti?
«Io non c’ero al falò ma se ho dato ordine ai miei uomini di bruciare tutto è perché ho avuto ordine di farlo».
Da chi?
«L’avete anche scritto sui giornali, da una stagista di Pirelli che aveva fatto training dal ragioniere fiorentino».
E lei prende ordini da una stagista?
«Io non prendevo ordini ma incarichi, e li prendevo da chi aveva il potere di darli. Quanto al falò va fatta una precisazione: da contratto nessun fornitore deve tenere copia dei lavori svolti perché un’eventuale divulgazione comporta il pagamento di una penale. Noi avevamo da parte i lavori fatti perché Telecom e Pirelli tardavano a saldare le fatture, conseguentemente facemmo presente che se non ce le saldavano significava che i lavori non erano di fatto mai stati realizzati e che quindi il materiale poteva anche essere divulgato non avendo alcun obbligo con alcun committente».
Sì ma voi distruggete tutto all’indomani della perquisizione a Tavaroli.
«La magistratura aveva già sequestrato negli uffici Telecom tutti i nostri lavori, quindi non dovevo bruciare niente di compromettente. Volevo solo evitare di pagare penali».
Rapporti con il Sismi?
«Quando uno tutela una grande azienda all’estero spesso li può avere. Il problema non è parlare con persone delle istituzioni o fare brain storn con esperti di settore riguardo eventuali avvenimenti. Fino a prova contraria credo che sia un reato frequentare latitanti, non appartenenti a forze istituzionali».
Sa niente del sequestro Abu Omar?
«Parliamo d’altro. Diciamo che mi avvalgo della facoltà di non rispondere».
La sua Global Security a un certo punto prende il posto del gruppo Cipriani nel lavoro con Telecom, e anche voi schizzate con il fatturato...
«La Global non è una mia ma del mio amico Giampa (Giampaolo Spinelli, ex Cia) che rappresentavo qui in Italia. Dal momento che Cipriani non poteva più lavorare a seguito di alcune inchieste, parte dei lavori ci vengono affidati. Telecom come Pirelli si avvale di circa dieci-quindici agenzie. Noi rileviamo solo una parte degli incarichi».
Ha parlato di Spinelli, amico di quel Bob Lady, capocentro a Milano, su cui pende una richiesta d’arresto per il rapimento dell’imam di viale Jenner.
«Anche qui è un’altra gogna. Un conto è essere amici, un conto è frequentare qualcuno, un altro è essere complici in eventuali illegalità. Se Marco Mancini del Sismi, e dico se, c’entra col sequestro, non vuol dire che il suo amico Tavaroli è complice nel sequestro. In Italia si fa spesso due più due, si fanno teoremi e poi si vanno a cercare le prove che li vadano a suffragare».
Mai avuto rapporti diretti con Tronchetti?
«No, mai. Per un periodo facevo da supervisore alla scorta personale di MTP (Marco Tronchetti Provera, ndr)».
Nello scandalo Brasil Telecom, la società di investigazioni Kroll si disse che indagava su Afef, la moglie di Tronchetti Provera. Vi siete occupati anche della signora?
«In quel periodo tutte le risorse investigative dell’azienda si occupavano di questo, d’altronde erano anni che la Kroll cercava di colpire il gruppo e Giuliano Tavaroli. L’ex capocentro di Milano del Sisde che si occupava del settore minacce economiche diversificate, è stato anche direttore della Kroll e so che aveva anche un risentimento personale contro Giuliano e che mirava a prendere il suo posto ai vertici dell’azienda».
Nell'ordinanza si legge un passaggio del suo interrogatorio nel quale lei parla di un «ricatto» a Telecom.
«È stato riportato sui giornali e in forma distorta. La storia è questa. Cipriani finisce nei guai, gli vengono congelati gran parte dei soldi, così lui si rivolge a Telecom e Pirelli giocando sporco: chiede una somma a fronte di quella che gli era stata “congelata” per non dare la chiave di decriptazione dei Cd con i dossier da lui mantenuti alla magistratura. Contestualmente giustifica tale richiesta dicendo che parte dei soldi li aveva dati a Giuliano, cosa falsa. Scredita Giuliano dichiarando cosa non vera per vendicarsi del non interesse sull’argomento da parte del suo ormai ex amico che non aveva voluto appoggiare questa sua iniziativa».
Lei accusa il manager di Telecom, Ghioni, di aver svolto azioni piratesche con accessi abusivi in sistemi informatici. Accuse gravi.
«Su questo c’è un’indagine in corso e non posso parlare».
È Fabio Ghioni il manager di cui Bove aveva paura?
«Non mi risulta che i due fossero amici. La stessa segretaria di Bove, che poi passa a lavorare con Ghioni, non aveva un rapporto idilliaco col Adamo. Stando a quanto dichiara ai magistrati riferisce cose che mi lasciano alquanto perplesso».
Ma voi come facevate a spiare e a intercettare mezza Italia?
«Noi monitoravamo da vicino le persone con il vecchio classico sistema di ocp (osservazione, controllo, pedinamento, ndr) e raccogliendo informazioni. Noi non abbiamo mai effettuato intercettazioni telefoniche o di alcun tipo. Noi, e non altri, indagavamo su persone che si vendevano tabulati e traffici telefonici tramite call center».
Un’ultima domanda. Perché è stato ascoltato da un magistrato della Direzione distrettuale antimafia?
«Non ne ho la minima idea».
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