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Da «Terminator» a Kubrick, il robot è di celluloide

Da «Terminator» a Kubrick, il robot è di celluloide

RomaMutanti, umanoidi, androidi, cyborg, replicanti. E, appunto, avatar. Paradossalmente, nell’immaginario fantascientifico, l’essere umano, di per sé un organismo straordinariamente complesso, non è mai abbastanza evoluto per i difficili compiti che il futuro gli riserva. Il cinema è stato da sempre popolato da varie «creature miste» scandagliando così tutta una serie di tematiche, mai banali, come il limite dell’«umanità» di questi esseri. Quanto rimane cioè di quello che chiamiamo anima in un corpo trasformato in robot, in mutante o, come succede in Avatar di James Cameron, in Na’vi, un ibrido umano per una seconda vita, il cui corpo può essere controllato dall’uomo. Avatar creati per conquistare Pandora, una stella molto simile alla Terra ma la cui aria è irrespirabile.
A partire dalla donna-robot di Metropolis di Fritz Lang del 1927 fino al mito di Frankenstein perennemente rivisitato (l’ultimo è stato Kenneth Branagh nel 1994), il cinema ci ha regalato decine di esseri molto «borderline», come in Blade Runner (1982) dove i replicanti sono molto umani (a sinistra Rutger Hauer). A Harrison Ford tocca lambirne i confini, anche sentimentali, invaghendosi della bellissima Rachel. Che umana non è ma ha, ad esempio, dei ricordi innestati che crede suoi e che la fanno anche piangere. Perché non innamorarsene?
Ancora più struggente è la storia che Steven Spielberg ha ereditato da Stanley Kubrick, prematuramente scomparso, e che ha trasformato nel capolavoro di A.I. - Intelligenza Artificiale (2001) in cui il protagonista è un robot con le fattezze di un bambino creato per essere adottato da due genitori che hanno il figlio naturale malato e ibernato. Quando quest’ultimo però potrà tornare sano, il piccolo androide verrà abbandonato e per lui inizierà un incubo, dai chiari riferimenti collodiani, che si trasformerà nel sogno d’incontrare nuovamente la sua mamma. È interessante notare come gli umanoidi vengano sempre creati dall’uomo per una sua utilità. Con il rischio, a volte, di sfuggire al controllo (un altro topos del genere) come nella saga di Terminator (1984, i primi due episodi sono sempre di Cameron), in cui l’androide impersonato da Schwarzenegger (foto a sinistra) ha il compito di uccidere il capo della resistenza umana contro i robot. O come in Io, Robot del 2004 diretto da Alex Proyas dove troviamo l’investigatore Will Smith alle prese con cyborg troppo pensanti e che per questo reinterpretano le tre leggi della robotica postulate da Asimov. Ancora una volta viene esplorato il limite tra l’intelligenza umana e quella artificiale.
Un confine spesso sottile che Cameron supera e ribalta perché in Avatar il protagonista Jake Sully (Sam Worthington) è un marine su una sedia a rotelle (purtroppo un classico sempre attuale: ricordate John Voight di Tornando a casa di Ashby o Tom Cruise in Nato il quattro luglio di Stone?) che arriva a Pandora per «incarnarsi» in un avatar. E non è certo una cosa di poco conto che in questa nuova vita virtuale, probabilmente a tempo determinato, avrà il dono del totale uso delle gambe, potrà correre più e meglio di prima...


La domanda è: vorrà infine tornare nei suoi panni maledettamente malandati ma molto umani? Il quesito è universale, la risposta molto personale. Il 18 dicembre vedremo sul grande schermo quella di Cameron che però, lo sospettiamo, non potrà mai essere definitiva.

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