In missione, i momenti forti martellano. Come meteoriti contro le pareti dalluminio della navicella, sottili come carta stagnola, quando si perfora uno sciame di asteroidi e polvere stellare a ventimila miglia orarie.
Si incomincia al lancio missione. Count down. Il vettore degli Apollo, il Saturn V, è un monolito più alto della torre di Pisa, 113 m di acciaio e di fuoco, 5 ugelli motori grandi come crateri, pronti a scaricare sul suolo acquitrinoso della Florida, in 125 secondi, 33,4 meganewton di spinta, kerosene e ossigeno liquido, un cavolfiore di fiamma e vapori visibili a chilometri, il singhiozzo della terra che farebbe saltare un sismografo. In un amen sei a 4G. Significa che se pesi 70 kg, ti senti come se lago della bilancia schizzasse a 280.
Sempre meglio di quando mi facevo sparare in cielo dal Titan, la fionda delle missioni Gemini, un balistico intercontinentale che ti faceva piombare a 8G, e per di più volava coricato di fianco, progettato comera perché il gioiello sulla sua punta, una termonucleare, fiutasse il bersaglio, simile a un segugio. Il cuore degli umani pompava allimpazzata. Ma le mie piccole viscere inattaccabili di metallo, rubini e olio lubrificante - blindate nel fondello di 42 mm - non facevano una piega.
Per questo cero io, stretto con la fascia di velcro alla tuta del mio umano. Per questo ero stato scelto, dopo una sfida infernale contro altre quattro capsule del tempo, per ritmare le ore del mission time.
Mi chiamano «moonwatch», lorologio della Luna. Molti hanno masticato amaro. Il vetro del mio quadrante, per esempio. È in Hesalite, praticamente plexiglass.
Pacchiano... Non sarebbe stato più dignitoso spedire sulla Luna il cristallo zaffiro di quel bolso e tronfio Rolex, uno dei miei più nobili sconfitti nelle gare di selezione della Nasa? Può darsi. Ma il mio tondo trasparente lo surclassa per almeno tre ragioni.
Primo: fonde a temperature ben più alte. E vi assicuro che quando, in EVA (Extra Vehicular Activity) il braccio dellumano si torce verso il sole, con i raggi che bombardano senza filtri atmosferici, mostrare i muscoli alla fornace dei +130 °C è una dote impagabile.
Secondo: sapete che cosa succede quando un cristallo si frantuma a zero gravity, in quella specie di stia per polli che è un modulo di servizio? I frammenti galleggiano fuori controllo. Sinfilano sotto le palpebre. Nelle narici. Negli anfratti di interruttori che fanno la differenza tra una missione o.k. e un disastro, miliardi di dollari e qualche vita in cenere. La mia plastica si graffia, sincrina, ma non si polverizza mai.
E non si scolla - terzo primato - dalla sua corona. Alle prove di schianto (40G nella centrifuga del laboratorio, con sbalzi ciclici di pressione e di umidità da incubo) i miei rivali si son visti tutti strappare via la copertura del quadrante. Con le lancette che si aggrovigliavano. Il Super Luminova che smalta le mie (le principali, le tre gregarie e quella decisiva, del cronografo) non si è scrostato neanche un po: visione perfetta dei dati sul fondo nero, anche nella tenebra astrale.
Gli invidiosi dicevano di me che ero arretrato. Carica meccanica manuale, tecnica preistorica rispetto allautomatica, o al quarzo che adesso va per la maggiore. Premesso che nessuna piletta a bottone per le cipolle al quarzo sopravvive alle temperature che ho affrontato io, la carica automatica è bocciata in partenza: funziona con un rotore interno che si avvita in funzione dei movimenti del braccio, e del proprio peso. Già, peccato che a bordo la gravità sia zero, e sulla Luna un terzo di quella terrestre. Sai che carica, allora! «LOmega Speedmaster non ha neppure il datario».
Ecco, mi sono presentato con il nome ufficiale, per smentire lultima maldicenza sul mio conto. A che serve un datario, là dove andavo io? Sulla Luna, giorni e notti non funzionano come quaggiù. La data lunare non è quella di Greenwich. A bordo, poi, albe e tramonti si susseguono a ritmi di poche ore, perché il modulo ruota lentamente su se stesso, ombra e sole, per calibrare la temperatura interna, stabile sui 22 °C. E il tempo è quello della missione, non dei negozi o delle banche di Manhattan.
Sulla terra era il 13 aprile 1971, ma lassù il conteggio era altro. Ore 55,50 mission time di Apollo 13. E qui devo tornare al discorso dei momenti critici. Il battito cardiaco di Jack Swigert, neofita dello spazio, simpennò quando premette il tasto radio e disse: «Houston, abbiamo un problema». Anche quello di Jim Lovell, comandante veterano, ebbe un tuffo, più contenuto: rimescolare lossigeno criogenico nel serbatoio due non era stata una buona idea. Si spaccò il contenitore, gas ghiacciato annuvolò tutto, là fuori, le barre denergia si estinsero, guidare lastronave era ormai come stare in sella a un mustang furibondo, a un rodeo del Texas. La vita di quei tre ragazzi (il terzo era Fred Haise, pilota del modulo lunare) era appesa alla precisione del mio cronografo, azionato da un pistone a pompa, annidato nella sua indistruttibile cunetta dacciaio. 14 secondi daccensione dei razzi ausiliari del LEM, Acquarius, si chiamava, la «scialuppa di salvataggio», per infilarsi nellatmosfera terrestre allangolo calcolato. Tolleranza derrore: 10%. Al di fuori del margine, cerano traiettorie troppo ripide, con un attrito che avrebbe sciolto lo scudo termico come cera al fuoco, o troppo oblique, che avrebbero fatto rimbalzare lastronave sulla coperta gassosa della terra come un ciottolo piatto sullacqua, e requiem per gli umani. Io, impassibile, come sempre: conteggiai il mio tempo, e riportai a casa i ragazzi.
Lo confesso. Anche per me ci fu un attimo estremo. Fu quando sentii quelle parole: «Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per lumanità». La voce era quella di Neil Amstrong, il comandante. Scendeva cauto dalla scaletta dellEagle, missione Apollo 11, 20 luglio 1969, e stava per appoggiare lo stivale pressurizzato sulla polvere della Luna, Mare della Tranquillità, alle 2:56 UTC (Universal Time Coordinated). Procedeva alla cieca, perché il casco gli impediva la visuale dei piedi. Non cero io al suo polso. Neil aveva lasciato il suo moonwatch, numero di serie 46, nel modulo, perché il Bulova di bordo aveva ceduto le armi, e il comandante voleva contare su un orologio sicuro, al rientro. Io ero agganciato al braccio di Buzz Aldrin, che scese subito dopo. Sentii le parole che ronzavano nellinterfono, nelle cuffie del mio umano. La mia serie, incisa minuscola allinterno del fondello, era 43.
Sono stato il primo segnatempo a scandire secondi sulla Luna. I due umani faticavano a piantare la bandiera USA nellaspro suolo color cenere, defunto da millenni. E fu allora. Lavorando, Buzz orientò il polso.
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