La Tirana del giovane Tafuri merita un film alla Tarantino

Matteo Monforte

C'è un bravo scrittore, in città. Si chiama Clemente Tafuri, classe 1974, ed è genovese puro sangue. Devo dire che non lo conoscevo, fino a poco tempo fa. Poi, un giorno, mentre girovagavo in una delle tante librerie del centro, mi è caduto l'occhio sul suo libro: La Caduta ( Einaudi, 2005) e ho deciso di comprarlo. Beh, devo dire che mi è piaciuto un sacco, gente.
Clemente Tafuri è giovane, come giovane è il suo modo di scrivere, secco, fulmineo, con periodo brevi che ti si piantano in testa come chiodi, con l'essenzialità che fa da sovrana, come se ti volesse far capire che tutto il resto è superfluo, che quello che vuole dire è tutto lì, in quelle cinque parole prima del punto, prendere o lasciare. Che, come con solo sette note si può fare il jazz, così, con immagini rapide e periodi fulminanti, si può arrivare diritti al sodo, senza tanti fronzoli per la testa. Certo, non si può dire che si sia inventato nulla, magari gente come Fante, o Kerouac, o per ultimo Baricco, c'era arrivata prima di lui, ma Tafuri ha reso indubbiamente il suo modo di scrivere e di raccontare storie davvero interessante. La trama è semplice, a tratti forse scontata, ma davvero efficace.
A Tirana, dove la morte è sempre all'angolo della strada, c'è la strana palestra di boxe di Juarisch Nicotra, un poco di buono, un mafioso corrotto, un delinquente incallito. In questa palestra c'è un talento, il giovane Elthon, vittima inconsapevole di un gioco molto più grande di lui, che coi pugni ci sa fare per davvero però, che non scherza proprio per nulla quando sale là sopra, su quel ring. Che ha un talento da campioni, ma la sfortuna di vivere lì, in quella città, dove col talento ci fai poco e nulla, perché l'illegalità controlla tutto e ti tronca i sogni ancora prima che nascano. E l'unico modo di evadere, per Elthon, di andare via da lì, di far vedere a tutto il mondo quanto valga, di vedere l'Europa di sfuggita con l'eterno sogno di andarci prima o poi a vivere, è quello di combattere in giro per conto di Nicotra, combattere per fargli guadagnare dei soldi, soldi di incontri clandestini, di scommesse illegali, di truffe spietate. Ma di pugni veri.
Tafuri si muove bene, in punta di piedi in un mondo che forse davvero non conosce così bene, ma che sembra tenere quasi nel pugno. Pare proprio che ci sia lui, sul quel ring, con Elthon, a schivare i jab e ad affondare i montanti. Sembra quasi sia lui ad innamorarsi così fanciullescamente di Corinna, la pupa del boss Juarisch Nicotra. Dà l'impressione di essere lui, quello che si affida totalmente al suo manager Mihal, come ci si può affidare ad un padre, con la netta consapevolezza di essere però in mani tutt'altro che buone e sincere.
Insomma, Tafuri ha fatto davvero un buon lavoro. Un libro pronto per la sceneggiatura di un film alla Tarantino, dal quale, per l'appunto, scopiazza qua e là il modo di raccontare la storia, con improvvisi flash back e scene da ricomporre come un puzzle, capitolo dopo capitolo. Ma avrà tempo sicuramente per affinare la mira.
Ha scritto anche un altro libro, precedentemente. Caino Lanferti. Una storia di Marsiglia (Einaudi, 2003). Da leggere anche quello, per entrare meglio nel suo mondo. Un noir ambientato nel 1974, ma decisamente sotto tono rispetto a La Caduta. Di un personaggio come Caino Lanferti, crudo e cinico investigatore privato in una Marsiglia popolata da storie e personaggi Bukowskiani, ne abbiamo a centinaia nella letteratura contemporanea.

Ma è comunque molto meglio di altri. Insomma, non c'è che dire, gente. Clemente Tafuri è un'ottima scoperta. L'ennesima, direi, di Fernanda Pivano.
Clemente Tafuri, «La caduta», Einaudi-Stile Libero, 2005, pag. 329, euro 11.80.

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