Tobino: serve l’amore per non impazzire

Cent’anni fa nasceva lo scrittore-psichiatra: narratore anomalo e medico "eretico". Ecco le lettere inedite che ne scandagliano l’anima

Tobino: serve l’amore per non impazzire

Non essendo un intellettuale ma un medico, Mario Tobino ebbe l’immenso privilegio di vivere la letteratura non come un lavoro ma come un vero piacere (e non essendo un «umanista per mestiere», come gli concesse Gianfranco Contini, poté mantenere un che di «primitivo» nella scrittura). Fu anche per questo che non si immischiò mai, altra squisita rarità, in correnti letterarie e di partito. Non ne aveva tempo, né voglia. La vita la dedicò a due sole cose: i suoi matti, per i quali ebbe lo stesso rispetto che riservò alle storie raccontate nei sui libri; e la scrittura, che curò sempre con la stessa attenzione che dedicava ai suoi pazienti.

Ebbe la dote innata di riuscire a leggere in punta di piedi i misteri della mente umana, e il talento assoluto di raccontarlo sulla pagina scritta. Uno scienziato del racconto. Scriveva quello che sapeva, e sapeva quello che scriveva. «Vivere l’esistenza e raccontarla testimoniandola, ecco la sua missione», ha detto di lui uno che lo conobbe bene, Vincenzo Pardini, altro scrittore arcigno e essenziale.
Mario Tobino compirebbe cent’anni in questi giorni. E ricordarlo è cosa necessaria. Famoso e molto letto fino a tutti gli anni Ottanta (morì nel 1991), è un autore da qualche tempo in ribasso, nonostante il Meridiano Mondadori con le Opere scelte del 2007. Si è parlato molto, e si continua a parlare anche oggi, della sua avversione alla famosa-famigerata «legge 180», la legge Basaglia che nel 1978 iniziò a smantellare i manicomi. Tobino la contestò, anche duramente, sia in pubblico che in privato. Lui che con i malati di mente ci conviveva - «Dopo numerosi anni che frequento la pazzia mi sembrò di conoscerla, di poterla umanamente dire», spiegava raccontando il motivo che lo spinse a scrivere Le libere donne di Magliano, del ’53 - e sapeva i rischi che avrebbero corso una volta lasciati “liberi”: Tobino non voleva un carcere-manicomio, voleva un ambiente protetto per chi, strappato all’unico mondo conosciuto, avrebbe sfogato contro altri o contro se stesso le proprie paure, le paranoie, la violenza. I benpensanti progressisti, miopi, lo esposero alla gogna mediatica. Il tempo gli ha dato più di una ragione.
Ma non è (soltanto) questo il motivo per ricordare Mario Tobino. Oltre il medico c’è il narratore. E allora si possono leggere, o rileggere, soprattutto le sue storie di mare - Gelosia del marinaio del 1942 o il bellissimo Angelo del Liponard del ’51 - e le «storie» dei folli, fino a Gli ultimi giorni di Magliano.

E poi, al di là di tutto, rimane l’uomo. Sul carattere e i sentimenti del quale aggiungono qualcosa alcune lettere inedite che in occasione del centenario delle celebrazioni (che dureranno tra mostre e convegni per tutto il 2010), la «Fondazione Mario Tobino» sta mettendo a disposizione degli studiosi. Tra le tante, una - tenera, poetica, dal finale impertinente - è stata concessa al Giornale dalla nipote, Isabella Tobino. È indirizzata al grande amore dello scrittore: Paola Levi, sorella di Natalia Levi Ginzburg e moglie dell’industriale Adriano Olivetti. È il 1944, Viareggio è sotto i bombardamenti e dev’essere sfollata. Tobino e Paola - in quel momento sposata a Olivetti - si amano già da due anni. Lei rimarrà vedova nel 1960, e da allora dividerà la vita con lo scrittore. Il quale, pur non sposandosi mai, fece di Paola il perno sentimentale dell’esistenza.

Da lei ebbe consigli e aiuti per «affrontare» il mondo letterario, da lei ebbe l’appoggio nella carriera di medico e di scrittore, da lei ebbe la stabilità affettiva che un uomo abituato a dividersi tra «matti» e «racconti» ha inevitabilmente bisogno.

Paola fu - come ricorda la nipote Isabella - la sua musa ispiratrice, «non nella poesia ma nelle sue scelte di vita: lui era sanguigno e impetuoso, lei serena e tranquilla. Gli dava sicurezza». Una donna - come le scrive Mario in quel difficile 1944 - «dove poggiare al testa».

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