Toh, è ritornato Walter (ma anche no)

Forse non bisognerebbe tornare troppo presto, forse è questo. Di sicuro non si dovrebbe tornare troppo presto - mai - dopo essersene andati troppo tardi. Guardi Walter Veltroni sul palcoscenico del Cinema Capranica, proprio a un passo da Montecitorio, e provi a capire cosa ci sia che non va, in questa sala gremita, quale sia la cifra che non torna in questa assemblea di amarcord precoce e di speranze che si declinano retroattivamente nel passato prossimo, tra rimpianti, sospiri e tante lacrime di coccodrillo.
Guardi Walter e il suo pubblico, il suo mondo che è accorso ad ascoltarlo, il fido Walter Verini che fa avanti e indietro, molto fico in maniche di camicia, guardi i veltro-pretoriani come il regista Ettore Scola, come il prefetto Achille Serra, come Raffaele Ranucci, solidamente imbullonato in prima fila, i veltroniani infedeli come Goffredo Bettini, che distilla interviste crepuscolari a Il Foglio e che canta il suo amore deluso per una mancata euro-candidatura nemmeno fosse un’amante tradita, e che ora fa vibrare nervosamente le gambe, sprofondato, con tutta la sua mole, in una poltroncina striminzita. Alzi la testa, leggi lo striscione in galleria: «Bentornato Walter!». Lo leggi e senti che suscita negli astanti qualcosa di agrodolce, un sentimento involontariamente comico. Lo slogan pare far rima con il più celebre «Togliatti è tornato!»: solo che quella per il migliore del 1948 era una vera festa di popolo, il segretario del Pci era scampato alla rivoltella di Antonio Pallante per miracolo. Mentre Veltroni se n’è andato pochi mesi fa dopo aver perso le regionali sarde, e nessuno è ancora riuscito a trasfigurare quel discorso di congedo in un evento mitico. Lo guardi sul palco, Walter, con il viso più asciutto, tonico, e il senso del dramma o della risurrezione non riesci ad avvertirlo nemmeno sforzandoti. Sembra che sia stato in vacanza. Forse non bisognerebbe tornare mai, prima di essere stati dimenticati davvero.
Il convegno si apre: sul podio scorre l’almanacco delle dichiarazioni dei supporter, inizi a capire qualcos’altro. Alla convention di Pierluigi Bersani c’era un frammento di popolo di sinistra, c’era ancora - anche se visibilmente rarefatto - uno spezzone della grande diaspora che da venti anni si protrae fra teatri, convegni e congressi. Qui da «Walter», questa sera, c’è una platea che è tutta di ceto politico. Sia chiaro, non c’è nemmeno un francobollo di spazio libero: ma i convitati di Walter sono una compagnia a invito, classe dirigente, un’adunata da salottino Freccia alata, più che una mozione politica. E infatti c’è Umberto Pizzi - l’occhio di Dagospia - che viene conteso di qua e di là, fra cenni sorrisi e inviti, come un capo di Stato. Questo è anche un Cafonal veltroniano. Ai piedi del palco, silenziose e attente, ci sono le veltroncine, Martina e Vittoria. Anche loro di solito si mobilitano per gli eventi, ma stasera, malgrado loro, l’aria dell’evento non c’è, Gianni Cuperlo è appoggiato a uno stipite, c’è Zoro, il blogger, con la sua telecamerina: ma poi la corrente salta durante l’intervento di Sergio Chiamparino, e il filo del climax si interrompe, la sala si sbraca.
Arriva Dario Franceschini, in maniche di camicia: sparsi per la sala ci sono i suoi uomini, come Francesco Saverio Garofani e Alberto Lo Sacco. Ci sono osservatori come Roberto Giachetti uno dei più popolari deputati del Pd (quello che digiunò per le primarie) che dice: «Devo ancora decidere con chi stare». E poi c’è Francesca Barracciu, l’ex segretaria regionale della Sardegna, bella, appassionata, e - sperando che l’interessata non trovi la sintesi brutale - incazzata assai. La Barracciu, reduce da una formidabile performance elettorale (oltre centomila voti, anche se il seggio non è scattato), è l’unica che dice pane al pane e vino al vino. Se la prende visibilmente con Bersani: «Non voglio preoccuparmi dei 150 anni di storia che abbiamo alle spalle, ma dei 20 o 30 che ci attendono». E subito dopo: «In Sardegna sono già iniziati i primi congressi, e sono già tornanti i signori delle tessere!». Ecco, nemmeno lei li nomina, ma ce l’ha con il suo ex avversario, Antonello Cabras, con Bersani, che aveva parlato il giorno prima dei 150 anni, e - ovviamente - con i dalemiani: «Quelli che si sono dati da fare per combattere il nuovo». Ecco, senti questo intervento, il vero picco emotivo della serata, e capisci perché il nostos, l’ennesimo ritorno veltroniano da un addìo che non è stato un addìo, non può funzionare. In primo luogo perché è un ritorno precoce. Ma poi anche perché è un ritorno ambiguo. Veltroni torna per combattere D’Alema, ma ancora una volta, breznevianamente, non lo cita mai. Veltroni torna ancora una volta, magnificando la propria sconfitta delle politiche: «Abbiamo recuperato milioni di voti passando dal 22% al 33%!». E, di nuovo, si dovrebbe ricordargli che il 22% il Pd non lo aveva preso mai. C’è in sala un oppositore che urla, il giovane e infaticabile Carlomagno: «Waaalteeer! Ricordati di Amendola!». E subito dopo: «Waaalteeer!!! E dillo che il nostro premier si deve dimettere!». Veltroni interrompe il suo discorso - sorridente e infastidito - per rispondergli.
Guardi Veltroni e pensi che non si dovrebbe mai tornare, prima che la nostalgia abbia creato le condizioni dell’emozione, che non si dovrebbe mai tornare, se non si ha da dire qualcosa di nuovo. Noi qualcosa di lui lo sappiamo: Veltroni sta correggendo le bozze di un romanzo parabiografico che si intitola Noi, e ha sfruttato il suo (auto) esilio come un semestre sabbatico. Walter dice che non bisogna parlare in politichese, e poi impiega mezz’ora a parlare del concetto di «vocazione maggioritaria».

E, ancora una volta in polemica con Bersani e D’Alema (ma naturalmente senza nominarli) precisa che la «vocazione maggioritaria», significa essere indipendenti, sia chiaro, ma anche essere alleati. Forse mi sbaglio. Forse esagero. O forse, più semplicemente, non si dovrebbe ritornare prima di essere andati in Africa, dopo aver passato dieci anni a raccontarci che si sarebbe andati lì.

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