Cultura e Spettacoli

Il topo, ovvero il miglior clone dell’uomo

Dopo aver letto Ratti (Isbn edizioni, pagg. 311, euro 18), sarà impossibile guardare con gli stessi occhi le nostre città. Camminando in un vicolo, sfiorando un bidone dell’immondizia, entrando in una casa disabitata, persino scendendo in cantina ci sembrerà di sentire un fruscio, uno sbattere di passetti veloci, lo stridìo delle unghie che graffiano il metallo. Ci sentiremo continuamente osservati, spiati quando andiamo a buttare il sacchetto della spazzatura. Se ci capiterà di camminare di sera, in un vicolo buio, staremo più attenti a dove mettiamo i piedi, nel timore di pestare una coda o di sentirci sgattaiolare qualcosa tra le scarpe.
E non stiamo parlando di Ratatouille, l’irresistibile topo record d’incassi della Pixar, così piccolo, pulito e simpatico che non ci sarebbe nulla di male a farlo dormire nel nostro letto. No, stiamo parlando di grossi ratti, anzi, per essere più precisi, del Rattus norvegicus, una specie di macchina da guerra, trenta centimetri di lunghezza per mezzo chilo di peso, denti che perforano la pietra e un’intelligenza che sfida quella di qualsiasi animale che l’ecologismo politicamente corretto ci spaccia come amico dell’uomo, dal cane al cavallo al delfino. Sporco, puzzolente, potenzialmente portatore delle più terribili malattie infettive dai nomi che sono tutto un programma, trichinosi, tularemia, leptospirosi fino ad arrivare alla diabolica peste nera. Apprendiamo che «nel secolo scorso, i ratti sono stati responsabili della morte di più di dieci milioni di persone». E ancora: «Alcune stime indicano che un terzo delle scorte di cibo del mondo è distrutto dai ratti». Inoltre: «Un maschio dominante può accoppiarsi con venti femmine in sole sei ore», e «una coppia di roditori ha un potenziale da quindicimila discendenti in un anno». «È come se la natura in cui esistono i ratti richiamasse alla memoria le vite che non sono ricordate e onorate, le cui carriere non sono rielaborate dalla storia - le vite che sembrano innaturali, anche logore, o almeno meschine, ma che in realtà non lo sono \. Quando guardiamo i ratti, siamo perciò obbligati a guardare la storia delle vite che vi sono nel mezzo, alla ricerca dell’Uomo Non Rappresentato».
Ratti è un libro straordinario, sempre appassionante, a volte esilarante, più spesso terribile perché spalanca la visione di un mondo parallelo al nostro che non è, però, un universo virtuale tipo Matrix, ma una realtà terribilmente vera e concreta, tanto nauseabonda quanto pericolosa; una realtà fatta di esseri viventi che nascono, si nutrono, si riproducono, si uccidono tra di loro e muoiono a pochi metri da noi, sotto di noi, di solito a noi invisibili, tranne quelle poche volte che il caso o la loro estrema audacia ce li fanno scorgere, e in quei casi il nostro terrore ancestrale è più forte della loro manifesta debolezza.
Robert Sullivan, l’autore di questo libro, per un anno, cioè quattro stagioni, centinaia di notti e migliaia di ore, si è appostato nei vicoli di New York per studiare i ratti. Lo ha fatto per un istinto da scienziato, sicuramente, ma ancor di più con lo spirito dello storico e dello psicologo. Perché il risultato non è tanto uno studio sul comportamento dei ratti, quanto una discesa agli inferi di New York e di qualsiasi altra città moderna che si illude di essere stata proiettata dal progresso in un empireo tecnologico e si dimentica di affondare le proprie indistruttibili radici nelle fogne del proprio passato; che nasconde, fingendo così di distruggerli, le proprie scorie, feci, scarti, immondizie. Ed è soprattutto il disvelamento di una civiltà dei bassifondi che viene descritta come in un romanzo, dove gli eroi hanno i nomi inquietanti di derattizzatori e sono individui a cui non stringeremmo la mano per paura di infettarci.
È una civiltà, quella dei ratti, terribilmente reale e incredibilmente simile a quella umana, con le stesse passioni, gerarchie, istinti, avidità, esigenze, astuzie. «Siamo un po’ tutti come i ratti. Andiamo e veniamo. Ci piegano, ma non ci spezziamo. Viviamo nelle colonie e ce la prendiamo con noi stessi, oppure siamo costretti ad andarcene o a morire di fame o a essere divorati dalla competizione, dal ratto più grosso. Ci sviluppiamo in luoghi improbabili e distruggiamo tutto. La nostra città non è sempre stata abitata, e quando siamo in un vicolo di ratti possiamo vedere le antiche colline su cui stavano i nostri antenati prima che infestassimo e distruggessimo la terra. Siamo diversi e uguali; siamo toccati dalla mano di Mida e invasi dalla peste, figli di Giobbe. Siamo ratti al Congresso, nelle case popolari, ratti ricchi che battono cassa, ratti poveri che vengono sbattuti fuori \. Siamo i ratti il cui numero può esplodere, o quelli il cui numero può diminuire, che possono sopravvivere dove nessun’altra specie ce la può o ce la vuol fare \. Con cautela possiamo prosperare; senza ci è impossibile: moriremmo di fame, e forse ci uccideremmo l’un l’altro, forse no».
Siamo ratti, o meglio ancora i ratti sono la parte oscura di noi, il nostro dark side, le fogne da cui siamo nati e ove torneremo dopo morti, ciò che si nasconde dietro la maschera della nostra civiltà.

Non dimenticando mai, però, «che se guardate nel profondo dell’oscurità, perfino in una tana, ci troverete della vita, una scintilla feconda, che vi piaccia o meno».

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