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Toto-esilio: Venezuela, Sudan e Zimbabwe in prima fila per dare rifugio al Colonnello

Washington e Roma pronti a offrire l'immunità in cambio di una rapida uscita di scena

Toto-esilio: Venezuela, Sudan e Zimbabwe in prima fila per dare rifugio al Colonnello

«Salviamo il colonnello». Da Washington a Roma la parola d’ordine è una sola. Alla faccia dei ribelli impantanati nel deserto cirenaico. Alla facciaccia di un Nicolas Sarkozy pronto a scippare i contratti Eni, regalare un pieno alla sua Total e guadagnarsi un comodo bonus elettorale.
L’ultimo capovolgimento di questa guerra senza guida e senza obbiettivi scatta nella notte. Mentre il Colonnello strepita dalla Tripoli bombardata Hillary Clinton gli lancia un inatteso salvagente spiegando d’incoraggiare un eventuale esilio del Colonnello. Un esilio che potrebbe portarlo dal «fratello» Hugo Chavez in Venezuela, nello Zimbabwe di Robert Mugabe o in quel Sudan dove Omar Hassan al-Bashir rischia pure lui il processo davanti alla Corte Internazionale dell’Aia. Ma cosa sa Hillary? Cos’è cambiato rispetto a 48 ore fa quando l’amministrazione Usa sembrava puntare sulla liquidazione di Muhammar Gheddafi? Un ruolo lo giocano alcune voci secondo cui autorevoli esponenti del regime «incoraggiano» il rais a scegliere la fuga all’estero. «Una parte di tutto ciò è teatro, ma una parte è proprio quanto pensa di fare... certo l’imprevisto c’è sempre - spiega la Hillary alludendo alla bizzarria del Colonnello – ma è anche un tentativo di sondare il terreno, di dire sapete quali sono le mie opzioni, dove potrei andare... e noi – conclude a sorpresa - incoraggeremmo un passo del genere».
Ovviamente il cambio di passo di Washington non si basa solo sui «boatos» libici. Dietro la svolta americana c’è soprattutto il malessere di Silvio Berlusconi, di un governo italiano pronta a tutto pur di salvare la Libia da un’involuzione di tipo «somalo» e deciso a non regalare ai francesi le commesse energetiche. Ma quel malessere risponde anche ad una visione geopolitica condivisa da una parte dell’amministrazione e del Pentagono convinti, come il nostro presidente del Consiglio, che la decisione francese di puntare sui ribelli della Cirenaica porti ad un’irrecuperabile divisione della Libia. Il cambio di passo lo si vede anche qui a Bengasi. Mentre i raid aerei in appoggio ai ribelli impantanati alle porte di Ajadabya, 152 chilometri a sud ovest, segnano il passo, si moltiplicano quelli intorno Tripoli, Misurata e alla Sirte. Si punta, insomma, a rallentare l’avanzata dell’opposizione cirenaica e favorire un «pronunciamento» in Tripolitania. Un pronunciamento che innescherebbe la fuga del raìs e lascerebbe il Paese, in attesa di riforme ed elezioni, nelle mani di esponenti del regime. Ovviamente l’elemento chiave di questa strategia è un negoziato che metta il raìs al riparo dai mandati di cattura del Tribunale internazionale e gli consenta un esilio più o meno dorato.
Le coordinate su cui dirigere il suo ultimo volo puntano sul Sudamerica e sull’Africa. La più sicura conduce a Caracas, la capitale venezuelana dove il raìs e Hugo Chavez hanno siglato nel 2009 un trattato di fratellanza. La coordinata africana nasce dai solidi legami instaurati da Gheddafi con il Continente Nero. Oltre a sostenere il 15 per cento dei costi dell’Unione Africana Tripoli investe da un decennio in tutta l’Africa sub sahariana sostenendo costosi progetti in Mali e Chad e lanciando mirabolanti investimenti in Liberia, Sud Africa e Madagascar. Senza contare i finanziamenti garantiti alle milizie arabe del Sudan in lotta contro i ribelli del Darfur e gli appoggi alla dissestata economia dello Zimbabwe di Robert Mugabe. L’Unione Africana, già contraria a qualsiasi intervento in Libia, potrebbe dunque negoziarne una sicura uscita di scena. Tenerlo in Africa potrebbe però non esser né comodo, né facile, né sicuro. Parigi vede come fumo negli occhi le interferenze del raìs nel Sahel e non permetterebbe mai ai Paesi dell’area di ospitarlo. Un soggiorno in Sudan o in Zimbabwe potrebbe non offrire sufficienti garanzie vista l’età di Mugabe e la fragilità politica del ricercato Omar Bashir. Pretoria, invece, non accetterebbe una presenza imbarazzante come quella di Muhammar Gheddafi. Dunque la via d’uscita migliore sembra una mediazione africana seguita da un esilio venezuelano.
In fondo Hugo Chavez è un po’ come Muhammar.

Galleggia su un mare di petrolio, ma guida un Paese sull’orlo del tracollo. Tra l’indio di Caracas e il beduino di Tripoli c’è quel legame di comune follia capace di suggellare una remota fratellanza e trasformarla in futura convivenza.

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