Trent’anni sono troppi per una legge cattiva

Alessandro GnocchiMario Palmaro

È ripartito in Italia il dibattito sull’aborto e sulla legge 194. È un fatto molto positivo, perché significa che dopo quasi trent’anni di aborto di Stato, la ferita non si è ancora rimarginata. Chi sperava di mettere una pietra tombale sulle istanze dei più deboli e indifesi, quei nascituri che non votano e non rilasciano interviste, dovrà rassegnarsi.
Una battaglia persa in partenza? A giudicare da certe reazioni isteriche, sembrerebbe di sì. Ma anche l’indipendenza dell’India appariva un miraggio prima di Ghandi. Anche l’apartheid in Sudafrica sembrava invincibile, e poi venne Mandela. Dunque: ben venga un nuovo dibattito sulla legge 194. A patto però che sia una discussione seria. Ci permettiamo di segnalare tre punti essenziali. Primo: il nodo gordiano da sciogliere è quello dell’autodeterminazione della donna. La 194 non è una buona legge applicata male. Al contrario la norma ottiene quello che vuole e che promette: che la donna possa decidere in modo arbitrario della vita del proprio figlio. Si tratta di verificare se sia giusto che l’ordinamento consenta questo potere di vita e di morte illimitato. Secondo: occorre che la politica decida se l’aborto è un atto indifferente per il legislatore. In Germania, la Corte costituzionale di Karlsruhe si è pronunciata per ben due volte sull’argomento. Ripetendo con coraggio una scomoda verità: abortire è sempre un atto contrario al diritto fondamentale di ogni uomo alla vita. Lo è anche - o forse perfino di più - quando la vittima è ammalata perché, dissero i giudici tedeschi, già una volta nella nostra storia abbiamo accettato che si discriminassero gli handicappati e gli ammalati. In Germania l’aborto è purtroppo legale, ma resta fermo che ogni volta che lo si commette si compie un atto illecito, che non viene punito solo per ragioni di opportunità sociale. Terzo: si deve capire in che modo il legislatore può tentare di dissuadere la pratica dell’aborto.
Da un lato - e qui sono in molti ad essere d’accordo - si potrebbero studiare nuove forme di aiuto alle madri con gravidanze difficili. Ma non basta. La norma giuridica non può limitarsi alle esortazioni. Il diritto ha un unico linguaggio: stabilire precetti e divieti, e presidiarli con una sanzione. Non è detto che questa sanzione debba essere il carcere, soprattutto quando ragioni di umanità suggeriscono clemenza e comprensione. Ma la pietà non può fare velo alla necessità di tutelare un bene giuridico fondamentale come quello della vita umana. L’infanticidio è, ad esempio, un delitto che mette insieme una colpa oggettivamente gravissima e una condizione spesso fragilissima della madre colpevole. Eppure, nessuno ha proposto - almeno per ora - di depenalizzare questo reato. Ora, se una tutela giuridica deve essere reintrodotta per il concepito, almeno in alcuni casi, si dovrà avere il coraggio di utilizzare anche l’arma della minaccia sanzionatoria.

Se la discussione sulla 194 aggirerà questi punti cruciali, finirà con l’attorcigliarsi nel solito equivoco, che risponde a una logica di scuola marxista: credere che l’aborto sia un problema economico. Non è così. L’aborto è innanzitutto il prodotto di una cattiva cultura, frutto di una legge che in questi 30 anni ha normalizzato e incentivato l’eliminazione di milioni di cittadini italiani non ancora nati.

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