Trentamila posti liberi ma per i giovani italiani meglio stare disoccupati

L’esercito dei disoccupati italiani nasconde un piccolo plotone: giovani potenzialmente occupati, ma a spasso pur di non svolgere mansioni manuali. A dispetto di crisi economica e preoccupazione per il futuro. Sono 30.750 i posti di lavoro liberi in tutto il Paese, e sono migliaia le aziende in ginocchio perché trovare manodopera specializzata è diventata una chimera. Non fanno eccezione Milano e la Lombardia, dove la maggior parte dei ragazzi non vuol neanche sentir parlare di fare l’idraulico, il falegname, il sarto o il fornaio. Nonostante un mercato occupazionale che promette lavoro stabile e qualificato. A lanciare l’allarme è Confartigianato: le aziende italiane nel primo semestre del 2009 hanno cercato 94.670 persone, ma il 32,5 per cento dei posti di lavoro è ancora libero. L’occupazione meno «gradita» dai giovani italiani è quella del falegname: il 51,7 per cento delle offerte resta inascoltato. Seguono parrucchieri ed estetisti (manca il 50 per cento della manodopera necessaria), idraulici (22,6 per cento), panificatori e pasticcieri (38 per cento), gelatai (28,2 per cento) e sarti (34,4 per cento).
Ma a soffrire sono anche le aziende impegnate in attività innovative, che cercano invano tecnici informatici e telematici (il 31 per cento dei posti è scoperto), addetti alla robotica (37 per cento) e addetti al controllo e all’organizzazione della produzione (22,5 per cento). Insomma, gli imprenditori bussano alla porta dei ragazzi, ma loro li ignorano. E piuttosto che diventare artigiani restano sulle spalle di mamma e papà.
E così nella sola provincia di Milano più di un terzo delle aziende non riesce ad assumere perché mancano lavoratori qualificati, mentre il 22,84 per cento non trova giovani da avviare alle professioni artigiane. Secondo una recente ricerca effettuata dall’Unione degli artigiani del capoluogo lombardo, all’ombra della Madonnina i ragazzi «snobbano» un futuro nella sartoria: solo due su dieci prendono in considerazione di darsi a taglio e cucito. E poi nell’edilizia (il 45,30 per cento del campione), nella manifattura tessile (43,20 per cento), nell’impiantistica (38,40 per cento) e nell’autotrasporto (35,30 per cento).
Non è solo colpa della pigrizia, certo. I ragazzi ignorano completamente le possibilità offerte da queste aziende in campo occupazionale e, soprattutto, i possibili guadagni. Gli stranieri lo hanno capito, e si sono fatti avanti. Non è un caso che, sempre secondo l’Unione degli artigiani, negli ultimi due anni il numero di aziende guidate da immigrati sia cresciuto in modo esponenziale. Soprattutto nei rami del tessile, della pelletteria e dell'acconciatura, nei quali le nuove iscrizioni all'Albo sono dominate da artigiani stranieri, con un netto 50 per cento.
«Non si tratta solo di imprenditori - spiega Marco Accornero, segretario generale dell’associazione -, anche tra i lavoratori dipendenti di nostre imprese la presenza di cittadini di altre etnie è in crescita e va in buona misura a supplire alla mancanza di italiani che si dimostrano disaffezionati ad alcune professioni».


Una situazione che preoccupa per «la presenza di evidenti fenomeni di concorrenza sleale e irregolarità», soprattutto nel campo del tessile e della pelletteria, nei quali i prezzi stracciati si accompagnano spesso a produzioni di bassissima qualità.

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