Cinzia Romani
da Roma
Mentre la Francia esibisce i suoi innegabili attributi nazionali, indicendo un referendum contro la Costituzione Ue, una pantera grigia di Nancy, classe 1920, balza sul grande schermo con stile esemplare. E mostra Triple agent (da venerdì nelle sale), un piccolo classico che, nella perfetta misura di 115 minuti, riesce a mescolare i temi più ardui: la fiducia tra marito e moglie, il tradimento delle idee, le vendette smisurate della storia. Ma la scrittura essenziale di Eric Rohmer, Leone d’oro a Venezia con Il raggio verde (1986) e qui anche sceneggiatore di questo film, affine al rohmeriano La nobildonna e il duca (2001), per tono tragico e focus sull’epoca passata, si ama da subito.
La critica d’Oltralpe ha già manifestato la propria sbalordita ammirazione di fronte alla vertiginosa vicenda di spionaggio e intrigo internazionale, enunciata fin dal titolo. Perché a fare il triplo agente, dal 1936 al 1943, anni cruciali, quindi, per il mondo sconvolto dalla guerra e dai totalitarismi, è Fjodor (il misurato Serge Renko), un giovane generale dell’esercito zarista, émigré a Parigi insieme alla moglie Arsinoe (la bella e brava Katerina Didaskalou). Un’artista greca, quest’ultima, che mentre incalza il Fronte Popolare francese e il marito si assenta, inseguendo il demone delle proprie missioni segrete, forse per conto dei sovietici, magari in nome dei nazisti o, chissà, per i russi bianchi anticomunisti (lo spettatore non verrà a saperlo), simpatizza con i vicini di casa gauchistes. «Sono così buoni!», condensa Arsinoe, abbracciata all’ambiguo marito nell’interno borghese della loro casa parigina, tanto più inquietante quanto più simula un’impossibile rassicurazione. Il triplo giochista, infatti, sarebbe pronto a sacrificare la sua dolce metà, pur amandola profondamente, per quel misterioso gruppo da cui prende ordini...
Siamo ancora dalle parti dei «racconti morali», così cari alla letteratura francese, che in Rohmer ha un prestigioso esponente, visto che i suoi capolavori, La marchesa von O... (1976), tratto dall’omonimo romanzo di Heinrich von Kleist e Perceval le Gallois (1978), ispirato all’antico poema in versi di Chrétien de Troyes, dilatano l’attenzione testuale. E proprio una tragedia di Kleist (Caterina di Heilbronn, 1979) segnò il debutto in teatro di questo cineasta, già teorico dei Cahiers du cinéma, di cui divenne ascoltato membro. In Triple Agent, tuttavia, il complesso intreccio storico, in cui si muovono sovietici, nazisti e francesi, funge da pretesto per mettere, nell’orecchio dello spettatore, la pulce del sospetto, che mina di continuo il moderno rapporto di coppia.
Ovvero: un uomo e una donna che si amino, riescono ad essere reciprocamente leali? «È difficile, ma non impossibile», risponde da Atene, dov’è rimasta per via di un malinteso con la Casa distributrice del film (la Bim, qui anche co-produttrice di un prodotto sostenuto, inoltre, da Spagna, Grecia e Russia) la protagonista femminile Katerina Didaskalou, che parla un francese impeccabile, causa d’immediato ingaggio da parte del regista. «Per me è stata una grande occasione poter lavorare con un grand monsieur come Rohmer, che non ha esitato ad esprimermi la sua ammirazione, quando mi trovava all’altezza del personaggio, assai dissimile da me come persona». Nella vita vera la Didaskalou, occhi scuri e chioma da seduttrice, è felicemente sposata e ha tre figli, che non lascia volentieri da soli.
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