«Troppe leggi contro la piccola impresa»

C hi è capace di vendere tè o riso ai cinesi, o kiwi ai neozelandesi? Gli imprenditori italiani. Gente che cerca la qualità e l’innovazione, che crede e scommette su di sé, personaggi intraprendenti e orgogliosi del loro lavoro ben fatto, che vogliono vivere da protagonisti senza rassegnarsi davanti alle difficoltà. Ce ne sono sei milioni in Italia, eppure sono ignorati o bistrattati come evasori nonostante garantiscano il 60 per cento del Pil e siano i più reattivi nelle fasi di crisi. Raffaello Vignali, sociologo dell’economia, parlamentare Pdl dopo aver diretto l’Irer e presieduto la Compagnia delle Opere, ha appena pubblicato un libro (La grandezza dei piccoli, Guerini e Associati) per raccontare questa malintesa «anomalia» di un’economia fatta non di grandi ma di piccole e medie aziende. «Il nostro problema - dice - è che sogniamo un sistema che non c’è senza credere abbastanza in questa anomalia, una delle risorse più grandi del Paese».
Lei sostiene che identificare gli imprenditori come padroni delle ferriere o potenziali evasori, invece che persone che creano lavoro e valore, è un danno per l’economia. Perché?
«È la vecchia idea pre-fordista del “sciur padrun”, un sadico che si diverte a trattare male i dipendenti: mai trovato uno in trent’anni che mi occupo di impresa. Nessuno licenzia chi ha voglia di lavorare. Ma se l’imprenditore è un sospetto, un nemico pubblico, la legislazione tende a fare norme sempre più punitive, con il risultato che l’imprenditore onesto (la stragrande maggioranza) resta imbrigliato mentre il disonesto, notoriamente, delle norme se ne infischia».
Burocrazia e iper-regolamentazione sono dunque frutto dell’avversità verso il mondo imprenditoriale?
«Moltissime leggi sull’impresa non regolano la fisiologia ma prevengono le possibili patologie. Steve Jobs cominciò la sua avventura in un garage: da noi sarebbe finito in galera per violazione delle norme di sicurezza. Aggiungiamoci che per la sinistra politica l’unica vera impresa è quella grande e sindacalizzata. Così si fanno leggi sulla taglia delle grandi e le si applica allo stesso modo alle piccole».
Tra i nemici dell’impresa lei annovera anche i guru dell’economia finanziaria.
«La colpa della crisi è della finanza e dei suoi megafoni, più che della politica o della frammentazione del nostro capitalismo. Fino al 2007 i guru dicevano che l’unica strada per crescere era delocalizzare e indebitarsi. Chi li ha seguiti è finito male: in fondo Tanzi è uno che ha applicato alla lettera questa moda di diversificare e finanziarsi a debito, salvo poi farsi dare del ladro dai suoi cattivi maestri. Invece l’Ikea che abbandona la Cina e torna a rifornirsi in Europa dimostra che il costo della manodopera non è l’unico parametro della solidità aziendale».
La finanza è la vera economia: non è così?
«L’idea di fondo del mio libro è l’opposto: che l’economia è fatta di persone, non di numeri. Per fortuna i nostri imprenditori si fidano ancora della realtà più che di consulenti e manager, per i quali scopo del lavoro è creare valore per l’azionista e non per l’azienda, i lavoratori, i fornitori, i clienti, il territorio».


Lei è stato l’anima della legge sullo Statuto delle imprese approvata all’unanimità l’autunno scorso.
«Qualcosa si è già mosso: per esempio, il decreto semplificazioni ne riprende alcuni elementi ed è stato nominato il garante per le piccole e medie imprese. È un buon inizio».

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