Cultura e Spettacoli

Tutti quelli che non possono non dirsi liberali

Per decenni la storiografia sulla Prima Repubblica ha avuto soprattutto una funzione legittimante. Che cosa intendesse legittimare è presto detto: i padroni incontrastati della nostra vita pubblica, ossia i partiti. Sui quali è stata perfino ritagliata un’apposita disciplina universitaria - la Storia dei partiti politici appunto -, che non per caso cercheremmo invano in un'Università francese, tedesca o inglese.
In questa gara alla fondazione storiografica della propria ragion d'essere, a far la parte del leone sono stati ovviamente i grandi partiti di massa: perché avevano risorse incomparabilmente maggiori di quelle disponibili alle forze politiche minori; perché essendo stati per decenni all'opposizione rispetto allo Stato nazionale erano più ansiosi di legittimarsi; perché potevano approfittare di un clima culturale, in buona parte del resto generato da loro stessi, nel quale i movimenti popolari ricevevano maggiore attenzione delle classi dirigenti.
Nella storiografia sono così rimasti indietro i partiti più piccoli, e fra di essi il Partito liberale, che era colpevole fra l’altro del peccato aggiuntivo di essersi spesso schierato a destra, e che gli storici di ascendenza socialcomunista, laico-progressista e democristiana hanno perciò in genere liquidato brutalmente e ingiustamente come reazionario. Ancora oggi, del resto, a chi dichiari di voler fare una tesi di laurea o di dottorato sui liberali può capitare di sentirsi chiedere: «Ma quelli, che cosa li studi a fare?».
Da qualche anno - con l’aiuto della Fondazione Einaudi di Roma, diretta da chi scrive - un gruppo di ricercatori che Fabio Grassi Orsini e Gerardo Nicolosi hanno raccolto intorno all’Università di Siena sta cercando di rimediare a questa carenza culturale. Il bel convegno che si è svolto nei giorni scorsi nella città toscana («I liberali italiani dal fascismo alla repubblica») è stata una delle molte tappe, e non l’ultima, di questo percorso.
Che cosa dovrebbe dunque rispondere il giovane laureando o dottorando al docente che gli chiedesse per quale motivo mai vuol studiare un partito irrilevante, e pure reazionario, come il liberale? A parte il fatto che tutto è degno di essere studiato, e che, come dice Max Weber in una delle sue tante pagine memorabili, chi non sia capace di «penetrarsi dell’idea» che «il destino della propria anima» dipende da una minuscola congettura sul proprio minuscolo oggetto di studio, è bene non faccia lo scienziato; a parte questa considerazione generale, dicevo, mi pare che studiare i liberali sia molto interessante per almeno tre ragioni. Le enuncio in ordine decrescente di importanza.
In primo luogo la «questione liberale», soprattutto per gli anni 1943-48, è cruciale per capire il rapporto che l’Italia repubblicana ha con la fascista e soprattutto la prefascista. Chi voglia comprendere gli elementi di continuità e le fratture che hanno caratterizzato il primo secolo di vita nazionale unitaria; ragionare sul tasso di rivoluzionarismo della dittatura mussoliniana; intendere il passaggio dalla monarchia alla repubblica; capire il significato storico e le origini della cinquantennale egemonia democristiana, non può fare a meno di interrogarsi a fondo sul modo in cui la tradizione liberale resiste in epoca fascista e riemerge, anche in forma partitica, dopo il 25 luglio del 1943.
Studiare il Pli, in secondo luogo, è uno dei modi in cui si può affrontare il problema della destra in epoca repubblicana. Il partito s’è spesso diviso fra un’ala conservatrice e una progressista. Nel convegno senese questa natura bifronte del liberalismo è emersa ripetutamente, e si è pure riprodotta fra gli studiosi - parte convinti che avesse ragione un’ala, parte che l’avesse l’altra. In più di un’occasione il Pli ha tentato, restando all’interno del campo antifascista e del sistema dei partiti, di catturare quella parte moderata dell’opinione pubblica che all’antifascismo e ai partiti era tendenzialmente ostile. Quest’operazione non gli è mai riuscita. Né i liberali si sono mai azzardati a qualificarsi apertamente come una forza di destra - in parte per convinzione, in parte per timore di essere delegittimati. Ma è proprio perché ha cercato invano di fare da ponte fra la repubblica antifascista e la «maggioranza silenziosa», mi pare, che il Pli rappresenta un buon punto di osservazione sul problema del conservatorismo nel cinquantennio postbellico.
Terza e ultima ragione per la quale vale la pena studiare il Partito liberale. È dal 1989 che ci dicono che il liberalismo ha vinto - anzi, che ci sarebbe addirittura un pensiero unico liberale. Eppure di liberalismo il nostro Paese continua a parere piuttosto deficitario che sovrabbondante. Forse, per capire un po’ meglio quale rapporto l’Italia abbia col liberalismo, dare un’occhiata a quelli che si sono sempre orgogliosamente definiti liberali del tutto inutile non è.
giovanni.

orsina@libero.it

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