«Macché Internet, a determinare le nomination e poi il nome del nuovo presidente degli Usa sarà, ancora una volta, la televisione». Non ha dubbi il politologo Robert M. Entman, docente alla prestigiosa George Washington University e osservatore critico del ruolo dei media nella politica Usa. Il suo giudizio, controcorrente, sembra confermato dagli ultimi sviluppi: la Rete viene usata con successo per raccogliere fondi e per convincere gli elettori con meno di trent’anni, ma gli investimenti più ingenti finiscono nel piccolo schermo. Barack Obama e Hillary Clinton hanno appena lanciato campagne milionarie a colpi di spot che, per la loro intensità, ricordano più quelle usate nell’imminenza delle elezioni per le presidenziali che nelle primarie.
Dunque Internet non è centrale nella strategia dei candidati. Come mai?
«Perché la tv raggiunge il 90% degli elettori, mentre la Rete ha un impatto frazionato, che risulta persuasivo solo con i più giovani. Tutte le polemiche che finora hanno animato il dibattito sono state lanciate sul piccolo schermo e poi riprese dai siti e da You Tube. È la tv che dà il tono a questa campagna. D’altronde se la Rete fosse davvero decisiva John Edwards, che online va fortissimo, sarebbe in testa. E invece è solo terzo».
E che ruolo hanno i grandi media?
«Sono ancora molto influenti, ma non stanno rendendo un buon servizio alla democrazia statunitense. Sono loro ad aver orientato sin dalle prime battute la corsa presidenziale. Giornalisticamente il duello tra una donna e un nero suscita interesse e dunque da subito i grandi giornali e le grandi tv hanno ridimensionato il ruolo degli altri candidati democratici, fino a farli sparire dalla scena. I media hanno responsabilità enormi».
Nel New Hampshire ci sono state pesanti denunce di brogli. Sono credibili?
«Sì, i seggi elettronici non garantiscono l’imparzialità del voto, come hanno dimostrato diversi studi; eppure si continua a usare queste macchine che rischiano di alterare il risultato finale. È già accaduto nel 2004 in alcuni seggi e probabilmente anche lo scorso gennaio nel New Hampshire; ma pochi ne parlano».
Com’è possibile in un Paese come l’America?
«Me lo chiedo anch’io. I media tacciono, il mondo politico anche. Ho l’impressione che tutti preferiscano non vedere».
Il duello Obama-Clinton fa notizia, la corsa tra i repubblicani molto meno: è un handicap in vista delle presidenziali?
«Non è detto. Anzi, la corsa nel partito dell’elefante è molto interessante. McCain è in vantaggio, ma non è ancora il grande favorito; Romney, Huckabee e Giuliani posso ancora farcela. Era da tanto tempo che non si assisteva a una corsa così incerta e questo è molto positivo, perché favorisce un confronto autentico e davvero libero. Purtroppo questo non piace ai media, che preferiscono lo schema classico, con un uomo in fuga».
Quanto influirà il voto degli elettori indipendenti?
«Moltissimo, saranno loro a decidere le nomination. Ciò gioca a favore di McCain e in teoria di Obama, ma il fatto che il senatore dell’Illinois sia un afroamericano è un problema per alcuni gruppi elettori, che alla fine gli preferiscono Hillary, anche se in realtà non la amano».
Quali sono i punti deboli della Clinton?
«Non è brava in tv e l’essere donna rischia di essere un handicap: se si comporta troppo da uomo viene accusata di non essere abbastanza femminile e dunque di rinnegare se stessa; se si comporta troppo da donna rischia di apparire fragile e dunque inadeguata a guidare il Paese».
E i punti deboli di Obama?
«È un buon comunicatore, ma ancora inesperto e quest’America in crisi richiede ai candidati soprattutto affidabilità».
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