Da Unicredit a Finmeccanica, tremano i «soci» italiani

Lo scorso anno gli investimenti libici nel gruppo Unicredit sono costati il posto ad Alessandro Profumo, accusato dal presidente Dieter Rampl di non averlo informato dell’operazione. In realtà si è trattato di un’operazione «di sistema», come lo fu negli anni Settanta-Ottanta l’acquisto del 15% della Fiat. La banca centrale di Tripoli e la Lybian investment authority possiedono il 7,5% del gruppo di Piazza Cordusio, quota che oggi vale 2,9 miliardi. Ma non è questione di soldi, o non solo: Unicredit è la più grande banca italiana, è il primo azionista di Mediobanca, con ramificazioni che da qui dipartono per arrivare ad altri gangli del potere, dalle Generali al Corriere. La Libia di oggi, dopo un lungo processo di relazioni, è considerato un Paese amico e un affidabile e silente socio in affari. Ma la Libia di domani, se i moti di piazza provocheranno qualche ribaltamento, lo sarà ancora?
Poi c’è l’Eni, il primo gruppo italiano, del quale i libici sono tra i grandi soci, con un 1% che sembra poco ma che vale altri 2,8 miliardi. I rapporti tra il gruppo guidato da Paolo Scaroni e la Libia sono antichi e profondi. All’ingresso dei libici nell’Eni, le concessioni energetiche italiane sono state allungate di 25 anni. La Libia è il primo produttore di petrolio in Africa, il quarto nel mondo, ed è il primo fornitore dell’Italia. É di pochi giorni fa la notizia una triangolazione internazionale che conferma il valore strategico dei rapporti tra i due Paesi. L’Eni ha ceduto a Gazprom la metà dei diritti di sfruttamento del giacimento libico di Elephant in cambio di condizioni migliori nel prezzo di acquisto del gas siberiano.
Il 7,5% del capitale della Juventus non è significativo ma simbolico: è la presenza attuale nel gruppo Agnelli-Exor, quasi a rinsaldare l’antica partnership. Il 14,8% nella società di telecomunicazioni Retelit, quotata a Piazza Affari, indica l’interesse libico anche per le tlc; Lafitrade, del resto, è socia di Quinta Communications, società di Tarak Ben Ammar. Gli investitori libici sono stati più volte indicati come possibili interessati al dossier Telecom, e su di essi si indirizza spesso l’attenzione quando il nostro sistema economico necessita di soci stabili. Anche il 2% in Finmeccanica, cementato da grossi ordini di elicotteri, rientra in questa logica.

Ora ci si chiede: aver affidato a Tripoli tante chiavi della nostra economia può esporre a rischi?
Se lo chiedono anche gli investitori privati. Tra i quali c’è Impregilo (grandi opere), che ha da anni cantieri in Libia dove sta costruendo università, autostrade, centri congressi, alberghi, oppure Ansaldo, che ha ottenuto commesse nel segnalamento ferroviario.

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