Economia

Uranio, in Usa è caccia ai titoli

I più grandi gestori di fondi pensioni investono nelle azioni del settore: rendimenti da capogiro

Pino Mencaroni

da Milano

Una pensione radioattiva? Mai dire mai. Lo sanno i gestori del fondo dell'Anglican Church di Sydney che anno rimosso l'uranio dalla lista nera degli investimenti «senza etica» e subito comprato a mano bassa azioni delle Bhp Billiton, big del settore minerario e numero quattro mondiale dell'uranio.
Nel frattempo, Fidelity Investment, il più grande gestore Usa di fondi pensionistici, è entrato con decisione nel settore acquistando oltre il 5% dell'australiana Paladin Resources, con giacimenti anche in Malawi. Ottima scelta, in 6 mesi il titolo è salito del 200%.
Dal 2000, i prezzi dell'uranio sono saliti da poco più di 9 dollari per pound ai 40 dollari toccati lo scorso martedì, il livello più alto dal gennaio 1980. Un simile trend rialzista è ancora sostenibile o rappresenta il prologo del crollo?
«Il trend è sostenibile - spiega Gene Clark, amministratore delegato di Trade Tech, società di consulenza nel settore nucleare - per il semplice fatto che le esplorazioni di nuovi giacimenti sono riprese solo recentemente, dopo anni di blocco».
Sono stati riaperti giacimenti in Australia, le compagnie di esplorazione firmano contratti a ripetizione in Niger (9% dell'offerta mondiale), in Mauritania, in Sud Africa (8% dell'offerta) e in Namibia, che ha l'ambizione di coprire in pochi anni il 10% dell'offerta. Decisioni che sottolineano un grande cambiamento di scenario.
Dagli anni Sessanta fino al crollo dell'Unione Sovietica, l'uranio è stato un monopolio militare tra Washington e Mosca che ovviamente non badavano a spese. Finita la guerra fredda, il decumulo di scorte si riversò sul mercato provocando il crollo delle quotazioni e la chiusura di molte miniere.
La svolta è arrivata con il nuovo millennio sulla scia della crescita economica dei grandi paesi asiatici, Cina e India, e il conseguente boom dei prezzi dell'energia a causa della corsa dei prezzi di greggio, gas e carbone. Così il nucleare è diventato un «must» se non si vuole perdere la guerra della competizione globale.
«Per fine anno l'uranio dovrebbe toccare i 50 dollari per pound, ma, entro i prossimi cinque anni, si potrà arrivare a 100 dollari. La ragione è semplice: se ne producono ogni anno 100 milioni, contro una domanda di 200 milioni», spiega al Giornale, Jean-Francois Tardif, il gestore manager di Sprott Opportunities Hedge Fund Lp. Si tratta del fondo che, nel 2005, ha battuto tutti: 39% di performance annuale contro una media del 9%, secondo i dati dell'Hedge Fund Research Inc. Tardif ha puntato sull'uranio l'8,3% di un portafoglio di 259 milioni di dollari. L'outlook è promettente. L'Agenzia internazionale per l'Energia prevede che, entro il 2030, oltre 200 miliardi di dollari saranno investiti nell'industria nucleare. Sul pianeta sono in costruzione 24 nuovi reattori e altri 41 sono già stati ordinati. Non si muovono solo tigri e dragoni del Pacific Rim, ma anche la Finlandia sta costruendo un nuovo reattore e sulle stesse orme si muovono Francia e Stati Uniti.
«La febbre del nucleare - avverte ancora Tardif - aiuterà i rendimenti dei fondi che puntano sull'uranio, pensionistici inclusi, ma prevediamo anche situazione paradossali.

I paesi, che non decidono mai o fanno programmi a lunghissimo termine, entro trent'anni potrebbero trovarsi con la centrale terminata e senza combustile».

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