URUGUAY Quella piccola Italia sul Rio de la Plata

Nello Stato dalle tante etnie, sono fortissimi i legami culturali con il Paese d’origine

da Montevideo
Correva l’anno 1840. All’inizio furono i piemontesi, poi via via i liguri, i napoletani, i friulani, i toscani e non solo. Erano gli italiani che avevano deciso (o erano costretti per ragioni economiche) di lasciare l’Italia per cercare fortuna in Uruguay, così come avevano fatto anni prima gli spagnoli, i francesi e i baschi a Montevideo, la capitale sorta nel 1726 come bastione difensivo spagnolo contro le ingerenze portoghesi.
Da allora di acqua ne è passata sotto i ponti di questo Paese agricolo che ne ha viste di cotte e di crude nella sua breve ma movimentata esistenza. In breve: l’epoca della prosperità con le esportazioni di carne, lana e pellame nel primo Novecento e la formazione di una classe media liberale educata in scuole statali di livello europeo; la lotta armata dei tupamaros; la nascita di una dittatura militare repressiva sulla scia degli altri Paesi sudamericani; una nuova apertura verso la democrazia negli anni Ottanta e la vittoria nel maggio del 2005 di un governo di coalizione di sinistra. Nel frattempo la crisi economica in Argentina del 2002 si è allargata a tutte le nazioni del Mercosur, provocando in Uruguay un’emigrazione massiccia di 500mila giovani qualificati in Europa, soprattutto in Spagna per via della lingua, con un grave impoverimento del tessuto sociale.
Oggi l’Uruguay, con oltre 3,3 milioni di abitanti, di cui la più alta densità è concentrata nella capitale, sta vivendo una fase di trasformazione e si muove schizofrenica a più velocità, tra placide esistenze rurali e rinnovamento urbano. E nulla meglio di Montevideo esprime queste anime così diverse che ne fanno un luogo di singolare fascino. Tutto si mescola, da queste parti: gente che sorseggia imperturbabile il mate per strada e personaggi arcaici come gli hurgadores che si fiondano in città dalle periferie per frugare nelle immondizie e raccattare legno, cartoni e vecchi mobili che poi caricano sui loro carros trainati dai cavalli e rivenderli all’indomani al migliore offerente. E ancora signore all’ultima moda dal piglio manageriale e ragazzi dal look globale che sciamano nelle vie della Ciudad Vieja appena si fa sera; ma anche gente che anima i mercati del cibo, le parilladas, che offrono l’impareggiabile carne (unico neo: la milanese qui a volte la chiamano «milanesas alla napoletana»). E sportivi che fanno jogging all’alba e al tramonto lungo la striscia che costeggia il Rio de la Plata dalle «dolci acque torbide» declamate da Jorge Luis Borges, che gli argentini chiamano fiume e gli uruguayani si ostinano a definire mare in una disputa che non sembra placarsi: del resto come dar loro torto se talvolta le capricciose onde salate dell’Oceano decidono di mescolarsi nell’estuario con quelle dolci del corso.
Montevideo è la città melting pot per eccellenza, dove le etnie si mescolano assumendo le sembianze di un’Europa inedita nella sua mescolanza: spagnoli e italiani sono la maggioranza, ma anche francesi, inglesi, ebrei, armeni e musulmani in una città che ospita una moschea e una sinagoga, oltre alla cattedrale e alle chiese, in una terra dove gli atei e gli agnostici sono il trenta per cento. Ma sono soprattutto i discendenti degli immigrati italiani quelli che appaiono più legati alle loro radici (il 40 per cento della popolazione totale), una comunità che porta l’Italia nel cuore fino quasi a mitizzarla. Ogni occasione è buona per raccontare con occhi luccicanti dei loro avi giunti a «la Merica» in tempi lontani, nel tentativo di ritessere un’identità nazionale smarrita fra tanti orrori e far riemergere la dignità e l’orgoglio là dove persistono smemoratezze e amnesie. Storie simili e insieme diverse che evocano quelle dei migranti italiani nella vicina Argentina, raccontate da Laura Pariani nel libro Il Paese dei sogni perduti (Effigie Edizioni, 2004). Capita spesso al turista italiano di entrare in un negozio o in un ristorante e venire accolto con slancio e calore da chi, fiero, non manca di annunciare ogni volta l’appartenenza.
A Montevideo si organizzano mercatini artigianali, attività museali, feste (non ultimo il famoso «Carnaval más largo del mundo» con le sue Desfile de Llamadas), eventi artistici e musicali come nel rinnovato Teatro Solís per favorire il turismo e le stagioni balneari nelle numerose spiagge, la più nota e mondana è la Punta del Este; anche se la vera battaglia è il potenziamento dell’istruzione (qui l’Università è gratuita) in un Paese determinato a creare una nuova generazione competitiva con il resto del mondo (il tasso di alfabetizzazione è altissimo: 98 per cento).
Capita così di sentire discorsi appassionati come quelli del ministero della Cultura Jorge Brovetto alla Televison Nacional che prospetta rinnovamenti a tutto spiano. «In realtà è un processo già in atto da quindici anni - spiega Mario Delgado Aparaín, assessore alla Cultura e il più grande scrittore uruguayano (in Italia ha pubblicato I peggiori racconti dei fratelli Grim con Luis Sepúlveda e Una storia dell’umanità, entrambi editi da Guanda) -. L’obbiettivo è decentrare le infrastrutture per rendere autonomo ogni quartiere della città per favorire l’inclusione sociale in un Paese con quasi 180mila persone che vivono al di sotto della soglia di povertà e dove ancora ci sono realtà drammatiche da combattere. Per esempio la violenza domestica contro le donne.

Ogni nove giorni ne muore una e ci sono oltre 6000 denunce all’anno».
Intanto i giovani hanno già creato un centinaio di punti culturali dove si riuniscono spontaneamente per fare musica, teatro e lavoro nel sociale con il contributo delle istituzioni. In vista di un nuovo futuro.

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