Borgo San Jacopo, cenando con Ponte Vecchio

Il ristorante stellato dell’hotel Lungarno della famiglia Ferragamo propone un’atmosfera discreta e romantica a due passi dall’Armo, nel cuore di Firenze. La cucina di Claudio Mengoni, tornato a lavorare a Firenze dopo esperienze in tutta Italia, è un inno alla semplicità: pochi ingredienti perfettamente in equilibrio e uno sguardo al territorio senza inutili nostalgie

Borgo San Jacopo, cenando con Ponte Vecchio
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C’è un’insidia sempre presente nel fare alta cucina nel cuore di una città ad alta vocazione turistica. Ed è quello di finire per rivolgersi prevalentemente a un pubblico di stranieri magari sognanti e bendisposti ma anche destinati a non diventare clienti fissi. E in questo modo il rischio successivo è quello di perdere di vista le proprie radici trasformando quasi senza accorgersene la propria cucina. Non è certo questo un pericolo per Claudio Mengoni, executive chef di Borgo San Jacopo, ristorante stellato all’interno del Lungarno Hotel della famiglia Ferragamo adagiato sull’Arno tra Ponte Vecchio e Ponte Santa Trinita.

Mengoni è un enfant du pays, che ha fatto ritorno nella sua Firenze dopo esperienze in giro per l’Italia (a Milano al Trussardi alla Sacala quando c’era Andrea Berton, a Colle Val d’Elsa all’Arnolfo di Gaetano Trovato, all’Olivo del Capri Palace con Andrea Migliaccio, poi all’Enoteca Pinchiorri a Firenze e infine all’Assaje dell’Aldrovandi Palace di Roma, dove ha conquistato la prima stella Michelin in proprio) e ha un’evidente voglia di riconquistare la propria città proponendo una cucina pura, autentica, rigorosa, senza compromessi mercantili, toscana e anche italiana (o forse il contrario, ma poco importa).

Mi ha colpito della mia recente visita al Borgo San Jacopo il lavoro sulla semplicità. Ogni piatto è giocato su pochi ingredienti (tre, quattro) di alta qualità, accostati con intelligenza e senso della misura. La tecnica è evidente ma mai esibita, il racconto procede spedito senza eccessi di memoria e senza mai fare prevalere né una tradizione stanca né una gestualità autoreferenziale.

Tre i menu: l’Experience racconta l’idea di cucina di chef Mengoni e costa 185 euro. Il Vegetariano costa 155. Il Primavera è un omaggio alla stagione, costa 170 euro ed è quello che ho potuto assaggiare, partendo da quattro semplici finger food. Taco farcito con tartare di ricciola e maionese al nero di seppia; Meringa classica all’italiana nella versione salata con un cremoso di finocchio, sgombro marinato e riduzione di arancio; Tartelletta cacio e pepe con prosciutto di Parma, caprino fresco e una sfera di nduja in versione light; Cannolo con farina di ceci, farcia di faraona, barbabietola e stella di pera marinata nello zenzero. Poi un amuse bouche: un Wafer con una piccola parte di Porto con cremoso di pinoli, prosciutto d’anatra fatta in casa, fragola e rabarbaro. Buona partenza.

Il primo piatto del percorso vero e proprio è una Mazzancolla cotta al vapore con caviale Royal Traditional dell’azienda bresciana Calvisius completata con crema di carciofo, crema di aglio nero, mazzancolla fritta servita con riduzione di arancia, zabaione in versione salata. Poi uno dei piatti più freschi e convincenti del percorso, i Ravioli farciti con piselli freschi, pappa al pomodoro, scampi crudi e il suo consommé. Quindi un secondo di acqua (una Triglia affumicata con agretti, barbabietola, pan brioche, burro alle acciughe, riduzione di cacciucco) e uno di terra (Quaglia di un produttore locale, Carlo Giusti, farcita con asparago verde, asparago bianco e completato da prosciutto e tartufo nero, con crema degli stessi ingredienti e foie gras).

Finale dolce con un Semifreddo al lemon card, cialda al cioccolato bianco, crema alle nocciole, gel al limone, salsa di ginepro e rosmarino e con Fragola, pistacchio e yogurt). Poi della piccola pasticceria assortita.

La cantina, che annovera circa 900 etichette di ogni genere, da grandi classici di produttori blasonati a piccole produzioni meno allineate, è curata con mano sicura dal bravo Salvatore Biscotti, che ama definirsi “vinaio”. A governare la sala provvede il manager Roberto Simoni. La squadra appare affiatata.

L’ambiente è elegante, classicista ma non opulento, con una piccola sala al piano strada e un soppalco leggermente più rustico e informale. Un terrazzino ospita due tavoli con vista Arno per clienti in vena di romanticismo (che sono la maggior parte, del resto).

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