Usa, Ue e Israele aprono la borsa per Abu Mazen

Lunga telefonata tra il presidente Usa e quello palestinese. Bush assicura "aiuti e appoggi", Solana promette un rapido sblocco dei sussidi in euro e Livni "scongelerà" 600 milioni di dollari. Manovre dentro Fatah

Usa, Ue e Israele aprono la borsa per Abu Mazen

Nablus (Cisgiordania) - Ehud Olmert, il premier israeliano sbarcato a Washington per il terzo incontro con il presidente George W. Bush, non aspetta altro e ripete di voler riprendere quanto prima i colloqui di pace con il vecchio Mahmoud Abbas (noto anche con il nome di battaglia di Abu Mazen) e il nuovo primo ministro Salam Fayyad. Da Gerusalemme il ministro degli Esteri signora Tzipi Livni fa sapere che tra breve Israele accrediterà sui conti dell’Autorità palestinese i 600 milioni di dollari in rimesse fiscali congelati da quindici mesi. Le voci della Casa Bianca sono in perfetta sintonia. L’embargo sugli aiuti all’Anp imposto dopo la vittoria elettorale di Hamas del gennaio 2006, è - a dar retta a funzionari e portavoce - ormai al crepuscolo.

L’Unione europea non è da meno. Questione di settimane e anche gli aiuti in euro, garantisce il responsabile della politica estera Javier Solana, torneranno a vitalizzare le casse dell’Autorità palestinese.
«Siamo pronti a esaminare con Abbas gli orizzonti politici per un accordo permanente tra noi e i palestinesi», assicura Olmert rivolgendosi ai presidenti delle maggiori organizzazioni ebraiche americane. Quasi contemporaneamente il portavoce della Casa Bianca Tony Snow rivela i dettagli di una telefonata di quindici minuti tra il presidente americano e quello palestinese in cui George W. Bush garantisce «aiuti e appoggi» e ascolta «i passi affrontati dal presidente Abbas per arrivare alla formazione del governo di emergenza e alla designazione del primo ministro».
Il presidente palestinese Mahmoud Abbas e il premier Salam Fayyad devono solo, a questo punto, guardarsi dal bacio della morte. «L’America non ci vuole. Israele non ci vuole. Tu chi vuoi?» Nel 2006 quel triplice immenso interrogativo firmato Hamas e incollato a ogni angolo della Palestina regalò una schiacciante vittoria ai candidati di Hamas. Stavolta la troppa fretta nel riconoscere i decreti di Mahmoud Abbas e i ministri di Salam Fayyad rischia di cancellare il ricordo del sangue versato da Hamas e di legittimare la presa di Gaza. Non succederà in Europa e neppure negli Stati Uniti, ma un sospetto lieve già agita i territori palestinesi e le piazze dei Paesi arabi. Diventerà una maledizione se Fayyad e Abbas dimostreranno di non voler e non saper cambiare le regole del gioco. Per ora la vera sfida del nuovo esecutivo è riuscire ad imporre la propria autorità. Al termine della prima riunione di lavoro del premier Salam Fayyad con i suoi undici ministri l’entusiasta responsabile dell’informazione Riyad al Malki garantisce ai giornalisti che «il governo saprà estendere la propria giurisdizione su tutta la madrepatria, indipendentemente da quanto successo a Gaza». Ma davanti a chi chiede come il governo conti di sottomettere l’agitato Hamastan allarga le braccia e confessa di non aver visto alcun piano. «Giuro su Dio che non so proprio come», confessa con ancora più candida sincerità Abdel Razzak Yahya, responsabile da domenica della sicurezza dei territori palestinesi.

Dietro al palcoscenico ufficiale s’intrecciano intanto manovre e regolamenti di conti per garantire al nuovo esecutivo l’appoggio di tutte le fazioni di Fatah. Mohammed Dahlan, il consigliere per la Sicurezza responsabile un tempo dell’egemonia di Fatah a Gaza, sembra il primo destinato a finire sulla graticola. Il presidente Mahmoud Abbas, dopo aver sciolto il Consiglio di sicurezza presieduto dallo stesso Dahlan, ha annunciato l’avvio di una commissione d’inchiesta sulla disfatta dei servizi di sicurezza nella Striscia. La spada di Damocle sollevata sulla testa del discusso consigliere serve anche a restituire al presidente l’appoggio di Marwan Barghouti, l’influente e popolare segretario generale di Fatah condannato a quattro ergastoli e detenuto in un carcere israeliano.

Una lettera volata con sorprendente celerità dalla cella di Barghouti al tavolo della presidenza garantisce ad Abbas l’appoggio del leader incarcerato e di tutti i suoi fedeli. Un impegno subito ricambiato dalla promessa presidenziale di discutere con gli israeliani lo spinoso argomento della scarcerazione di Barghouti.

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