"Uso la pistola per tenere i Vip incollati alla loro poltrona"

Il titolare che gira l’Italia a prendere le misure del fondoschiena dei clienti. Così un’azienda diventa un caso di marketing studiato all’università. Il capo dello Stato, la presidente di Confindustria, il direttore del Tg1: tutti comodi sui troni "anti ribaltone" dell’imprenditore che all’occorrenza fa anche l’artigiano

"Uso la pistola per tenere i Vip 
incollati alla loro poltrona"

"Presiden­te, si col­lassi!". Giorgio Napolita­n­o è rimasto per un at­timo interdetto: l’or­dine, cortese ma pe­rentorio, veniva da un signore di grande distinzione, vestito di scuro e in guanti bianchi, inginocchiato a fianco della poltrona su cui il capo dello Stato s’era appena assiso.Comprensibile esitazio­ne, lieve impaccio e poi, oplà, anche Napoli­tano è finito inclinato all’indietro di 16 gradi. «Mi perdoni, presidente, ma riesco a interve­nire solo se il peso del corpo si scarica per intero sullo schienale». Rapida registrazione dei meccanismi sotto il sedile. Fatto. Perfet­ta. «L’uomo giusto sulla poltrona giusta». Sarà. Ma il presidente della Repubblica l’ha scampata bella. Un po’ in segno di defe­renza, un po’ in omaggio ai comuni natali, Vittorio Pappalardo, napoletano verace, gli ha risparmiato l’altro rituale, ben più imba­razzante, da cui trae origine la tradizione d’indossare i guanti bianchi: il controllo del fondoschiena. «Eh, amico mio, lei non sa di quanti e quali guai sia foriera la mancata ade­renza della poltrona a livello lombare», si giustifica. Ora vorrebbe che le terga presi­denziali trovassero sollievo anche a Villa Ro­sebery, la residenza su Capo Posillipo dove gli inquilini del Quirinale vengono a godere del paesaggio marittimo: «So che lì vi è una poltrona nera che fu scelta da Francesco Cos­siga. Io ci vedrei bene qualcosa in tessuto da­mascato con i colori della nostra bandiera». Pappalardo non è solo l’imprenditore che ha saputo dare dignità regale al tanto vitupe­rato attaccamento alla poltrona. È molto di più: un maestro di sedute, un cerimoniere del potere e, per dirla come va detta, un formi­dabile accaparratore di deretani celebri.

Ma guai a pensare che la sua manifattura di piaz­zetta Sant’Onofrio dei Vecchi, nel cuore di Napoli, sforni semplici poltrone, sia pure da collezione: «Mi consenta di correggerla, dot­tore. Direi che i miei, più che altro, sono corpi macchina ergonomici». Costruiti da quattro soli artigiani, ai quali per almeno cinque ore al giorno, quando può, si affianca lui, il fonda­tore e amministratore unico: «Cuciture e fin­i­ture sono il mio hobby anche nel poco tempo libero. Spesso capita che la domenica mi alzi dal letto con un’idea nuova. Vengo qui in la­boratorio e me la realizzo da solo». A queste condizioni, la perfezione è dietro l’angolo: «Modestia a parte, quella delle misure l’abbiamo già raggiunta, almeno nel mec­canismo antiribaltone», si toglie le scarpe, balza in pie­di sulla poltrona avendo cu­ra di tenere i talloni fuori dal sedile e ciononostante le cinque razze munite di ro­telle non si spostano di un millimetro sul pavimento.

Pappalardo, 57 anni, è fi­glio d’arte. I suoi avevano un’azienda di mobili e mac­chine per ufficio. Il padre Giuseppe morì quando lui aveva appena 10 anni. Ha frequentato la Scuola Sviz­zera di Napoli e poi un ma­ster di direzione aziendale col professor Franco D’Egi­dio a Milano. «I miei genitori mi hanno inse­g­nato che la famiglia è al servizio dell’impre­sa, D’Egidio pressappoco il contrario. Ho raggiunto un equilibrio olistico: la verità sta nel mezzo». Magari non l’ha raggiunto pro­prio del tutto, visto che, «per scelta», ha mes­so al mondo solo Vittoria, oggi al terzo anno di liceo artistico, «un figlio ha bisogno di una madre e di un padre e io lavoro 18 ore al gior­no, a casa non ci sono mai, perché far nasce­re degli infelici?».

L’imprenditore è spesso in giro per l’Italia ad acculare i suoi selezionati clienti sui pez­zi unici preparati per loro, personalizzati con nome e cognome inciso in un ovale d’ot­tone e numero di matricola con codice alfa­numerico a 10 cifre. «Il cliente va coccolato. Se un’azienda non mette al primo posto la sua soddisfazione, non ha futuro. Il compra­tore scontento ti arreca un danno irreparabi­le. Invece quello contento lavora ogni gior­no per te. Ho costruito la mia fortuna sulla qualità e sul passaparola». Un caso di marke­ting da manuale, che è stato oggetto di stu­dio all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, nel corso tenuto dalla professoressa Elena Perrella per i laureandi in scienze del­la comunicazione, e che troverà consacra­zione nel numero di maggio di Vogue Acces­sory , con una poltrona in velluto rosso ispira­ta ad Alice nel paese delle meraviglie.

Non si può dire che Pappalardo non aves­se ben chiaro il target quando nel 1980 regi­strò alla Camera di com­mercio il marchio Vip, sigla che fonde le lettere iniziali di Vittorio Pappalardo ma che è soprattutto l’acroni­mo di «very important per­son ». Nel corso degli anni ha messo comode le autori­tà locali: l’arcivescovo Cre­scenzio Sepe; il prefetto Alessandro Pansa; il que­store Santi Giuffré; il co­mandante della Nunziatel­la, colonnello Filippo Troi­se; i direttori del Mattino , Virman Cusenza («avevo già pronta la targhetta per il suo predecessore, Mario Orfeo, ma fu chiamato alla guida del Tg2 ») e del Dena­ro , il più diffuso quotidiano economico del Sud, Alfonso Ruffo. Poi ha ampliato il ramo giornalisti: il direttore del Tg1 , Augusto Minzolini, e il suo vice Genna­ro Sangiuliano; il direttore di Panorama , Giorgio Mulè; il direttore del Tempo , Rober­to Arditti. Infine ha puntato dritto ai palazzi romani del potere: dal capo dello Stato alla presidente della Confindustria, Emma Mar­cegaglia, e al suo vice, Enzo Boccia. Adesso l’inarrestabile Pappalardo minac­cia di dilagare nel mondo dello spettacolo. Alla presentazione di Vallanzasca, gli angeli del male , al Maschio Angioino, su richiesta della Fondazione Valenzi ha intronizzato il regista Michele Placido, gli attori Kim Rossi Stuart e Francesco Scianna, che nel film inter­pretano il capo della banda della Comasina e il suo rivale Francis Turatello, e Filippo Timi, che impersona il luogotenente del Bel René.

Quattro poltrone uguali, in gessato grigio sti­le gangster anni Trenta, con i nomi ricamati a mano sulla spalliera. E con una particolari­tà che contraddistingue le Vip di Pappalar­do: la fondina per la pistola sotto il sedile. Un articolo di sicuro successo, considera­to il territorio in cui opera la sua azienda. «È un accessorio molto utile, che mi sono inventato per i questori, i commissari di poli­zia e gli uomini d’affari costretti a girare ar­mati, mica per i camorristi. Lo fornisco solo su richiesta. E comunque non è l’unico». Che altro ha escogitato? «Il pomello sullo schienale per appendere la giacca. Il portaocchiali. Le tasche sui brac­cioli per l’agenda, il palmare o il pacchetto di sigarette. La custodia per lo specchietto». Inventiva partenopea. «Cura del dettaglio. La stessa che metto nel­la scelta dei tessuti, dalle lane Loro Piana al velluto Visconti di Modrone». Un tifoso del made in Italy. «Siamo stati noi a insegnare al mondo a man­giare, a bere, a vestirsi, ad arredare le case.

Sono disposto a fare un’eccezione solo per il lamellare di faggio dei braccioli, che provie­ne dalla Slovenia ma viene curvato in Italia. Il meccanismo per sollevare le poltrone è quello utilizzato dalla Ferrari per i portello­ni delle rosse di Maranello. Le pelli arrivano dalle concerie vicentine di Arzignano e il taf­fettà dalle industrie tessili lombarde. Ho pro­dotto poltrone con le sete del mio concittadi­no Maurizio Marinella, il re delle cravatte. Quella della Marcegaglia l’ho fatta con una stoffa bianconera di Emilio Federico Schu­berth, il grande sarto napoletano morto nel 1972 che vestiva le mogli e le amanti di re Faruk d’Egitto, aveva fra le sue clienti Sofia Loren, Brigitte Bardot, Gina Lollobrigida, Lucia Bosé, Silvana Mangano, Wanda Osi­ris, Silvana Pampanini e in una sola notte preparò il guardaroba da imperatrice alla principessa Soraya, consorte dello Scià di Persia. I braccioli li ho impreziositi con due pietre Swarovski». Ma a che servono i cristalli Swarovski? Non fanno tanto trono di Bokassa? «Questione di misura. Li ho inseriti nella par­te inferiore del bracciolo, chi sta davanti alla scrivania neppure li vede. Ogni poltrona va considerata nel suo contesto e adattata alla personalità di chi la usa, come se fosse un abito. Per il cardinale Sepe ho scelto un tes­suto damascato con filo dorato, ovviamente rosso porpora.

Nel rinnovare lo studio, un operaio stava portando via per errore la pol­trona. Sua eminenza lo ha fermato urlando: “Guaglio’, posa ’sta cosa ccà!”. Me l’ha rac­contato divertito lo stesso arcivescovo». Il cardinale dev’essere molto affeziona­to alla sua poltrona. «Prima d’incontrare me, era costretto ad ar­rangiarsi con due cuscini per dare sollievo alla schiena. Vede, nessuno lo sa, ma quan­do siamo seduti la colonna vertebrale è al massimo del carico. Quindi la schiena ade­sa alla spalliera è l’unico modo per scaricare il peso. Il che significa che il sedile deve distare quat­tro dita dal poplite». Prego? «Il poplite, la regione poste­riore del ginocchio. Altri­menti lei con la schiena al­la spalliera non ci arriverà mai.Inoltre il sedile dev’es­sere semirigido, perché la medicina del lavoro inse­gna che chi sta per molto tempo su una poltrona troppo morbida rischia emorroidi e prostatiti». Addirittura. «Lo capisce da sé: il cusci­no comprime e surriscalda il perineo. Non basta atte­nersi alle regole fissate dal­l’-Ufficio italiano unificazio­ne per il normotipo di statura compresa fra 1 un metro e 62 e 1 metro e 92. Bisogna valuta­re caso per caso. Per i miei concorrenti, abi­tuati a fabbricare in serie, le normative rap­presentano intralci burocratici, ostacoli pro­duttivi. Per me invece diventano leve di marketing.

Lavoro solo su misura, vado a rendermi conto di persona a domicilio, de­vo vedere peso e altezza del cliente». Quindi a Giulio Andreotti farebbe lo schienale con l’incavo per la gobba. «Davanti a qualsiasi persona, dal capo dello Stato all’ultimo degli impiegati, mi pongo con lo stesso atteggiamento di un medico. Per questo indosso i guanti di cotone bian­co. Di lattice no, mi saprebbe troppo da sala operatoria». Anche da obitorio. «Quando Giancarlo Elia Valori, l’economi­sta della Fondazione Abertis che è stato pre­sidente di Autostrade per l’Italia, ha visto che me li infilavo, mi ha chiesto guardingo: “Ma lei è massone?”». Lo credo. Nelle logge non si entra senza grembiule e senza guanti bianchi. «Gli ho spiegato che era solo una forma di rispetto e d’igiene. “Meno male”, ha com­mentato ». Quanto c’impiega a costruire una poltro­na? «L’ammiraglia richiede un’intera giornata di lavoro». Costerà una fortuna. «Mai essere venali. Io lavoro per me, per la soddisfazione d’avere una clientela esclusi­va. Il prezzo è l’ultima cosa che guardo. Pri­ma viene l’appagamento estetico. Non di­mentichi che noi italiani siamo i leader del bello nel mondo».

C’era già la Frau che fa poltrone belle. «Ma piglia ’a via do mare! Per l’amor di Dio, bellissime eh, intendiamoci. Ma lei prenda la storica Antropovarius disegnata da Ferdi­nand Porsche. Tanto di cappello per le verte­bre d’acciaio e la lamina di carbonio, però in qualsiasi modo lei voglia regolarle non trove­rà mai pace. Il design serve per vendere. Ma alla distanza sono l’utilizzo e la durata che fanno la differenza. Le mie poltrone sono concepite per l’eternità,come tuttigli ogget­ti di classe, che devono garantire un’assolu­ta manutenibilità nel tempo. Se un cliente sporca di caffè il sedile o lo schienale, smon­to la poltrona, lavo il tessuto e riconsegno il prodotto come nuovo». Sceglieranno tutti il nero, per evitare ma­nutenzioni annuali. «Hiii, per carità! Mai consegnato poltrone nere. Mi rifiuto di farle. Una poltrona nera non invita a sedersi e uccide la creatività». E lo dice lei che indossa cravatta nera, calzoni neri, calze nere e perfino il cintu­rino dell’orologio in pelle nera? «Ma io sono un fiore! E poi, dottore, il Rolex col cinturino d’acciaio a Napoli non lo puoi proprio portare. Dà troppo nell’occhio». La poltrona è legata a valori negativi. Starsene in poltrona: oziare.

Essere in­collati alla poltrona: cupidigia di potere. Com’è riuscito a nobilitarla? «Ho compiuto quello che in gergo si chiama stiramento di prodotto.Ha presente l’Aspiri­na? A un certo punto l’acido acetilsalicilico non bastava più e così la Bayer ci ha aggiun­to l’acido ascorbico, cioè la vitamina C. Ho trasformato la poltrona in un oggetto perso­nale, tant’è che il prefetto Pansa ha voluto portarsela appresso nel nuovo incarico, e an­che affettivo: Osvaldo Martorano, che con la sua Martos finanziaria è uno degli sponsor del Napoli, ha preteso che gliela foderassi con una bandiera della squadra di calcio». Perché un’azienda come la sua è nata in Campania anziché in Brianza? «E la fantasia dei napoletani dove la mette, dottore? Eh, lo so, voi del Nord pensate che le nostre uniche specialità siano il sole, la piz­za, il mandolino e le statuine del presepio. Vorrei farle notare che la Magnaghi costrui­sce i carrelli per i caccia Tornado e i velivoli Embraer, Aermacchi e Agusta; la Mecfond fornisce le presse industriali a Fiat, Chrysler, General motors, Citroën, Opel, Peugeot, Renault, Se­at, Skoda e Volvo; la Dema produce componenti per gli aerei Apache; la famiglia Mataluni è il secondo pro­duttore di olio al mondo». Di che cosa ha più biso­gno la Campania in que­sto momento? «Della presenza dello Stato, in ogni sua espressione». Ma qui festeggiate volen­tieri l’Unità d’Italia op­pure avete nostalgia dei Borbone? «Un po’ di nostalgia c’è. Se andasse a visitare il museo di Pietrarsa e vedesse la sto­ria del Reale opificio creato da Ferdinando II, la prove­rebbe anche lei. È lì che nacque la prima fer­rovia del Belpaese, la Napoli-Portici, inaugu­rata nel 1839. La Fiat sarebbe venuta soltan­to mezzo secolo dopo».

Non ha mai pensato di trasferire la sua attività al Nord? «Mia moglie me lo chiede un giorno sì e un giorno no. Ma come si fa, dottore? Sbaracca­re tutto a 57 anni... E poi Napoli non resterà così in eterno, dia retta a me. Se non avessi questa speranza, mi sarei già sparato». (533. Continua)

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