È possibile una lettura diversa del capolavoro di Cormac McCarthy, uscito nel 1979 e appena pubblicato in Italia da Einaudi, a parte scrivere che Suttree è un novello Huckleberry Finn, a parte trovare ovvie derivazioni con Faulkner, o addirittura con l’Ulisse di Joyce?
Nella storia del pescatore Cornelius «Buddy» Suttree, che vive in una casa galleggiante sul Tennessee e come Francesco d’Assisi (e con meno pretese evangeliche) ha lasciato una famiglia ricca e una vita benestante, c’è sì molto di picaresco, e ritratti di miseria tra «ladri, derelitti, puttane, bari, ubriaconi, truffatori, assassini, pervertiti e tutta un’infinita varietà di debosciati», e tuttavia non è un romanzo di Victor Hugo, e neppure c’è un eroe o antieroe dickensiano, e tantomeno il carcere, raccontato all’inizio, assomiglia alle carceri mistico-eretiche e carnali di Jean Genet.
Ciò che interessa McCarthy è la vita, l’insopportabile stasi della vita, e proprio perché il tran-tran vita è altrove. «Nella sua ultima lettera mio padre diceva che il mondo è guidato da coloro che sono disposti ad assumersi la responsabilità della sua guida. Se è la vita che ti sembra di perderti posso dirti io dove trovarla. Nei tribunali, negli affari, al governo. Nelle strade non succede niente. Nient’altro che una pantomima composta da impotenti e casi umani».
Bisognerebbe dirlo a tutti coloro che scambiano la cronaca con la letteratura perdendo di vista l’essenza dell’uomo, lo sprofondamento a cui uno scrittore è tenuto, mentre un narratore d’intrattenimento può anche farne a meno, e infatti hanno tratto un film dal suo libro meno bello, Non è un paese per vecchi, mentre David Foster Wallace suggeriva di girare un film su Suttree («quattrocento pagine della prosa più densa che puoi immaginare»), ma a Gus Van Sant, mica a Muccino, e a ben vedere per distoglierlo dall’idea di farne uno su Infinite Jest. Perché Suttree, nella sua lingua organica, brulicante, scintillante e putrescente e al contempo lapidaria, è un romanzo americano della modernità, quella modernità della conoscenza che vede l’uomo sconfitto rispetto a ogni metafisica della speranza. Si respira l’aria di Mark Twain, ma qui se ne è anche soffocati. Né vi è posto per rivendicazioni da capanna dello Zio Tom.
Se l’Ottocento è stato il secolo dello scandagliamento della psicologia umana, con Flaubert e Dostoevskij (ma già il Seicento, con Shakespeare), nel Novecento l’impatto tra l’uomo e ciò che lo circonda è un districarsi nel caos, la perdita del centro, la perdita della supremazia sull’ordine naturale. Dopo il 1859, dopo l’immane terremoto di Charles Darwin che ha fondato la scienza moderna, la genetica, la biologia molecolare, i confini dell’umano sfumano e si disintegrano, la coscienza si animalizza, e ogni vita scivola in ogni altra vita, condanna incisa nel nostro Dna, e spesso si sprofonda nell’oggetto, nella «cosa» come metonimia della mente che non è più niente.
In Suttree questo scivolamento è continuo, incastonato in ogni parola, e costituisce la tessitura stessa della scrittura di McCarthy. Così una bambina diventa «una grezza bambolina vestita di stracci con due occhi enormi cupamente incavati e baluginanti nel suo cranio d’uccello». I ratti, come le persone, marciscono in angoli dimenticati, rotolando mollemente «dentro la propria pelle». Ogni metafora o analogia passa dall’umano all’animale, dall’animale al rifiuto, dal piccolo al grande, fino alla materia stellare, perfino le mosche «fendono l’aria come comete», e il sole è «un orifizio aperto su un inferno più grande ancora» (come «l’ano solare» di Bataille). I vecchi sono «come effigi con le dita intrecciate a coppa sul pomo del bastone», i bambini «sfrecciano veloci e grigi come ratti tra i bidoni». In questo mondo di pescatori perfino i pesci spiano «con occhi freddi e dorati dal loro letto di ghiaccio salato».
Se la Recherche di Proust è la presa di coscienza di questa disfatta (l’ultimo orrore dell’ultima festa dei Guermantes), ciò che resta è tutto fuori, nelle cose. Le descrizioni in Suttree sono enumerazioni infinite: abitazioni di nudo cartone, pisciatoi di assi traballanti, anonime costruzioni di carta catramata e lamiera, «vicoli ricoperti di sabbia nera dove vagano bambini e cani grigiastri». E «il fiume che scorre là fuori. Cloaca Maxima».
È questo scontro tra l’uomo e la durezza del mondo, nello svuotamento di ogni psicologia, l’essenza della grande letteratura americana del secondo Novecento. Tant’è che Harold Bloom canonizza McCarthy insieme a Roth, Pynchon e DeLillo. Al di là di dove si vuole andare a parare, il centro è sempre il non poter parare più niente, lo sguardo senza filtri. La poesia si annida nella sottrazione del lirico, l’epica nell’assenza di epica. È ciò che lega McCarthy, che per le sue storie si è tentati di collocare fuori dal tempo e dallo spazio degli scenari attuali, ai più recenti e significativi scrittori americani. Romanzi dove non c’è più psicologia non intaccata dalla tragedia di esistere, dove la mente annega nelle cose e nella sua rassegnazione, il passaggio dalla metafisica sconfitta dalla fisica e dalla biologia. Basti pensare allo «stato delle cose» di Richard Ford, al «rumore bianco» di DeLillo, agli abiti firmati di Bret Easton Ellis, all’everyman di Philip Roth, dove la parola «cuore» significa il terrore dei bypass, alla depressione suicida dentro cui sprofondano i personaggi di David Foster Wallace, e alla fine l’autore stesso. Solo in questo senso c’è «neorealismo».
È quanto è avvenuto nelle arti visive del Novecento e nella loro epistemologia: mentre gli oggetti sono in qualche modo vivi e rappresentano il disagio dell’uomo (il readymade di Duchamp, la Pop Art, i Nouveaux Realist, il New Dada), la vita è oggettificata (gli uomini di gesso di Segal e le sculture iperrealiste, le Campbell’s e i disasters di Warhol, fino ai manichini di Cattelan o agli animali sezionati e in formalina di Hirst). Più vicina, quindi, quest’opera di McCarthy, al Cosmo di Gombrowicz che a Faulkner o Twain, più Franz Kafka che Flannery O’Connor, più Charles Darwin che Charles Dickens.
Certo, con il pescatore Suttree e il suo giovanissimo amico Harrogate, compagno di carcere per essere stato beccato di notte con pantaloni calati a
scoparsi dei cocomeri (succedesse a un politico italiano sai che scandalo), si ride anche molto, perché ogni grande opera è anche comica. Ma nel senso di Samuel Beckett, perché «non c’è niente di più comico del tragico».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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