Venezia, una Mostra troppo provinciale

RomaPer carità, quando c’è da mettere a punto il menu del festival di Cannes i cugini francesi non sono da meno con i colori nazionali. E tuttavia, a dieci giorni dalla Mostra di Venezia, ci si chiede se 22 titoli tricolori spalmati nelle diverse sezioni, 18 dei quali lungometraggi (e tra questi 4 in concorso), non siano un’esagerazione tutta italiana, un riflesso provinciale, un’imbarcata volta a soddisfare molte richieste e sopire qualche malumore.
Proprio l’anno scorso, di questi tempi, un denso articolo di Der Spiegel fece arrabbiare il direttore Marco Müller. Il settimanale tedesco reputava «troppo patriottica, piena di film italiani che comunque faranno fatica a conquistare il Leone d'oro», la sessantacinquesima edizione. Figurarsi la numero sessantasei, che sta per aprirsi all’insegna di Baarìa, il kolossal da 30 milioni di euro firmato da Giuseppe Tornatore. Intendiamoci, anche l’America, intesa come Stati Uniti, è adeguatamente rappresentata, con ben 17 titoli, 6 dei quali in gara; solo quarta la Francia, e però con 4 film tutti i concorso. Per dire che, rispetto a Cannes, ci piace essere di manica larga anche con chi di solito ci maltratta.
Ma certo resta il fatto che mai come quest’anno, forse neppure ai tempi di Gian Luigi Rondi direttore (quando l’italica sezione De Sica era definita «famigerata»), l’Italia la fa da padrona al Lido. Müller, nel bloccare a giugno decine di film nostrani perché non andassero altrove, ha spiegato che la qualità delle proposte era talmente alta da esigere qualche strappo alle regole. Così, alla fine, con l’esclusione significativa di L’uomo che verrà di Giorgio Diritti, preso dal Festival di Roma dopo qualche scaramuccia, più o meno tutti i titoli dati per papabili a Venezia saranno a Venezia. I quattro in concorso, appunto Baarìa di Tornatore, La doppia ora di Giuseppe Capotondi, Lo spazio bianco di Francesca Comencini, Il grande sogno di Michele Placido, più il resto della compagnia, nella quale spiccano, citando alla rinfusa, Io sono l’amore di Luca Guadagnino, Tris di donne & abiti nuziali di Vincenzo Terracciano, Le ombre rosse (già Il fuoco e la cenere, già Anni luce) dell’indeciso a tutto Citto Maselli, Cosmonauta di Susanna Nicchiarelli, Il compleanno di Marco Filiberti.
Tutti in fila, insieme ai film selezionati dalle sezioni autonome «Settimana della critica» e «Giornate degli autori», per guadagnarsi un posticino al sole, un titolone di giornale, una menzione al tg, se possibile una polemichetta: insomma la sospirata visibilità in vista dell’uscita nelle sale. Solo che Venezia, così ardentemente agognata dai nostri registi, non sempre porta fortuna, anzi quasi mai. Prendete, per restare all’anno scorso, Un giorno perfetto di Ferzan Ozpetek. Un disastro di critica, un mezzo tonfo al botteghino. Commenta Caterina D’Amico, amministratore delegato di Raicinema: «Era un bel film, ma sapevo che al Lido l’avrebbero infiocinato. Non capisco perché i registi vogliano tutti andare lì. Io non ci manderei nemmeno il mio gatto. Venezia è un palcoscenico pericoloso per gli italiani. Storicamente la stampa italiana è schizzinosa con i nostri film, sempre pronta a beccarli in castagna». Le ragioni, secondo la D’Amico, sono diverse. «Vogliamo chiamarlo carattere nazionale? Vizio nazionale? Non so. Ma succede, sin dai tempi della Terra trema e dei Soliti ignoti. I francesi, invece, sono sciovinisti».
Difesa patriottica a parte, succede che molti dei film italiani toppino al box-office dopo la festa veneziana. Poi ci sono le eccezioni virtuose come Pranzo di ferragosto o La ragazza del lago, piaciuti alla critica scrivente e al pubblico pagante, ma sono, appunto, mosche bianche, innamoramenti, rivelazioni. Basterebbe dare uno sguardo ai dati riguardanti il periodo settembre 2008 giugno 2009. Esaurita la sbornia legata alla doppietta Gomorra e Il divo, il cinema italiano, specie quello d’autore, ha ricominciato a boccheggiare.

Resta pressoché stabile il numero complessivo dei biglietti staccati rispetto all’anno precedente, sopra i 95 milioni, ma i nostri film perdono quasi un terzo di spettatori, passando da 32,6 a 23,7 milioni. Vorrà dire qualcosa o no?

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