La vera identità dei riformisti

Arturo Gismondi

Invitato a rispondere sul futuro partito dell’Ulivo alla Festa dell’Unità di un paese emiliano, Giuliano Amato in duetto col giornalista Floris sostiene che scopo dell’unità fra la Quercia e la Margherita è quello di dar vita anche in Italia a un grande partito riformista come è nel resto d'Europa. Amato è colto, sa discorrere, sa di Storia, infila ricordi e aneddoti, e la prende piuttosto alla lontana. Parla del riformismo socialista, e del riformismo cattolico, del perché i due riformismi procedettero separati, fino ai nostri giorni. E questa sarebbe la parabola, l’anabasi del partito democratico secondo Giuliano Amato.
C’è, nella storia, qualche cosa che non convince, un che di vago, un’assenza che si avverte, i conti insomma non quadrano. La storia della sinistra, e del movimento operaio, è più complicata. In una parte dell’Europa il riformismo dà vita a società moderne, democratiche che riescono a coniugare prosperità, democrazia e conquiste operaie. È lo stato sociale, il welfare, il meglio della democrazia nel secolo scorso. In altre parti dell’Europa, dopo la prima guerra mondiale, e in tutto l’Est-Europa dopo la seconda, di riformismo non è il caso di parlare. Dispiace rovinare la festa ma si affermano in questa parte del mondo regimi totalitari, che sono altra cosa. E in Italia, nasce un partito comunista, quello di Togliatti, Longo e Berlinguer, che lascia ben poco spazio al riformismo minoritario di Saragat, ma anche a quello cattolico attruppato in uno schieramento democratico che ha quale compito primario la sopravvivenza della democrazia.
È difficile omettere questa parte dello storia, e lo è perché il partito unico, democratico, o dell’Ulivo che sia, deve nascere da un riformismo cattolico che con qualche buona volontà possiamo associare alla sinistra sociale della Dc, Pastore, Donat Cattin, la Cisl, la corrente di Forze Nuove (presente oggi in verità più nel Polo che nell’Ulivo), avendo come controparte non il riformismo socialista, finito con Craxi, ma semmai quel che resta della presenza comunista, alla quale nessuno, neppure Giuliano Amato può attribuire il ruolo dei partiti socialisti europei, il francese di Guy Mollet, il tedesco di Schumacher e di Willy Brandt. Amato pronuncia il suo «ego te baptizo piscem», o ripete il battesimo collettivo di un uomo di Chiesa pio, e semi-cieco nell’«Isola dei pinguini» di Anatole France.
Giuliano conosce la storia, non ignora quale sia la componente essenziale del futuro partito unico. Fra l’altro, egli parla a una platea fra le più rosse dell’Emilia. E però egli partecipa di una operazione politica che ha deciso di prendere per quel che è la «sinistra incompiuta» del Pci-Pds-Ds nella speranza, o nella illusione, su questo non c’è grande accordo, di costringere il partito definitosi riformista, mai socialista, a sbiadire quel che resta della sua Storia e della sua anima. Queste tesi le abbiamo lette sul Corriere della Sera, nell’estate 2006, e firmate dal suo direttore, e da altre firme illustri, al punto da suscitare il dubbio che l’idea del partito unico, democratico o riformista più che da forze riformiste sia nutrito da un establishment illuminista e di vocazioni interclassiste. Fu quello della Dc che aveva con sé però una dottrina sociale della Chiesa capace a suo tempo di opporsi alla egemonia comunista.
Nel suo intervento, Amato polemizza amabilmente con alcuni esponenti della sinistra Dc come Ciriaco De Mita, che dalla avventura del nuovo partito si tengono alla larga. Il De Mita fu prodigo a suo tempo di buoni servigi resi al Pci, fu l'inventore di quel «patto costituzionale» che mediante una riforma dei regolamenti parlamentari affidata a Ingrao e Andreotti introdusse il Pci nell’area del potere pur tenendolo fuori dall’area del governo. De Mita fece insomma quella operazione, che poi si concluse fra il ’76 e il ’78 con i governi della «solidarietà nazionale» di Andreotti che portarono il Pci secondo il titolo di un libro del tempo «Alle soglie del potere». Ma il De Mita del «patto costituzionale» era il segretario della Dc, ancora primo partito d’Italia. L’idea di confondersi nello stesso partito, e in condizioni di assoluta minorità politica non lo convince affatto. Non lo convince l’idea di entrare in una fase della storia di quella «sinistra incompiuta» nata con Achille Occhetto all’indomani della caduta del muro di Berlino e rimasta immutata, fissa e uguale a se stessa. Ma avendo conservato, della vecchia storia, una vocazione egemonica irrefrenabile.


a.gismondi@tin-it

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